Corriere della Sera - La Lettura
Streghe, maccartismo I fantasmi si ripetono
Commedia pochissimo rappresentata in Italia, Il crogiuolo di Arthur Miller apre la stagione del Teatro Stabile di Torino il 3 ottobre al Carignano in prima nazionale per la regia di Filippo Dini e la nuova traduzione di Masolino d’Amico. Scritta nel 1953, qui Miller s’interroga sulla condizione umana, sulla proterva capacità di distruzione dell’uomo e crea un ponte metaforico tra la caccia alle streghe avvenuta a Salem, Massachusetts, nel XVII secolo, storia perversa di sesso, denaro, religione e potere, e il buio periodo americano del maccartismo. Dalla caccia alle streghe a quella dei comunisti negli anni Cinquanta. Lo stesso Miller ne fu vittima insieme con altri membri del mondo del cinema e dello spettacolo, accusati di svolgere attività antiamericane e costretti in molti casi, pur essendo estranei alle accuse, ad autodenunciarsi come spie comuniste e a denunciare colleghi e amici pur di uscire dal tunnel della paura. Paura che porta alla delazione. Ieri come oggi.
A Salem, nella realtà, un gruppo di ragazze s’è lasciato trasportare dalla bella Abigail. Lei ha appena perso il lavoro di domestica, dopo avere ceduto ai desideri del suo padrone John Proctor: la moglie di lui, Elizabeth, l’ha mandata via. Furiosa contro di lei e innamorata del padrone, Abigail è pronta a uccidere la donna denunciandola come strega per riconquistare l’amante che non la considera più. Diverse ragazze seguono le sue orme in senso letterale e vengono sorprese, una notte, a ballare nella foresta; e poiché sono sospettate di essere streghe e di dedicarsi nude a un sabba, si vendicano ribaltando la situazione: basta dichiararsi vittime di incantesimi e denunciare gli abitanti del villaggio con tutte le loro forze per diventare padrone e protagoniste del momento. Un sordido rigido tribunale condannerà a morte decine di innocenti, in un incredibile processo kafkiano che ruota su sé stesso in un alternarsi di intrighi e colpi di scena, in un clima di tensione e paura, pregiudizi e diffamazioni. Gli eventi si susseguono vorticosamente.
L’accusa infamante diventa sentenza nel momento stesso in cui viene pronunciata. La menzogna si trasforma in verità assoluta: per gli accusati non c’è più via di scampo né possibilità di difendersi. È un nero incubo, che evoca il Processo di Kafka o quello brechtiano di Galileo, ma con una base comune d’intolleranza e fanatismo, ignoranza e soprattutto paura.
Al regista Filippo Dini, che in scena ricopre anche il ruolo di Proctor, è venuto il desiderio di raccontare questa storiaccia, e che cosa renda questo testo un nostro
Ho detto delle coreografe. I due musicisti sono entrambi statunitensi, Steve Reich è nato a New York nel 1936, Terry Riley in California nel 1935. Riley è considerato il primo compositore minimalista con la composizione InC (ovvero In do) del 1964. Personalmente il mio primo incontro con il minimalismo avvenne dieci anni dopo ascoltando The Köln Concert di Keith Jarrett durante uno spettacolo di Simone Carella. Potrei dire che da quella sera ascoltare altra musica mi riesce difficile. Ma dieci anni dopo o poco meno, mi accadde di scoprire la danza. Che cos’era per me la danza? Niente altro che il balletto, come lo intendevano Mallarmé e gli stessi Paul Valéry e Claude Debussy: non un’«arte», ma un supplemento o un puro virtuosismo devoto al sublime: tra il balletto e la danza, un abisso. Il balletto era ed è l’illustrazione di un testo che lo precede o accompagna; la danza era ed è il teatro-danza, la danza moderna: molto più che un’illustrazione, piuttosto un testo che, con o senza musica, sprigiona un significato. Dunque, il vero problema che la danza pone è identico a quello che pone ogni concerto o sinfonia: in una certa misura sia la danza che la musica si possono descrivere, si può provare a dire «come sono»; indicibile in entrambi i casi, e in pari misura, dire «che cosa sono».
Come è InC di Terry Riley, che abbiamo ascoltato nell’interpretazione dei dodici musicisti dell’Ensemble Casella (violino, violoncello, clarinetto, flauto, due sassofoni, percussioni, chitarra elettrica e tastiera)? Sasha Waltz sintetizza così: un testo «scritto solo su due pagine e strutturato in 53 figure musicali [...] molto gioiose e colorate». Possiamo aggiungere che si tratta di un brano di musica aleatoria, la durata complessiva in genere è di 70 minuti, a ciascun musicista è concessa una sua discrezionalità: uno di essi comincia suonando ripetutamente, in ottavi, solo la nota Do.
Come ha interpretato Sasha Waltz l’ininterpretabile testo di Riley? C’è un gesto iniziale dei performer (sono quattordici) che può essere una chiave: non tutti insieme alzano a scatti, ripetutamente, una spalla: un gesto meccanico, che consideriamo specchio della nota iniziale do, variamente ripetuta.
Ogni danzatore in scena sembra agire per conto suo, come non avesse una traiettoria prestabilita (e in parte è così: ho usato il termine performer perché l’improvvisazione la si coglie a occhio nudo). C’era quel punto iniziale, ci sono dei percorsi, c’è anche la variazione da ciascuno per sé stesso introdotta.
La maggioranza delle gestualità e delle traiettorie è solitaria, rapida, leggera: i quattordici in scena si avvitano, ruotano, si inginocchiano, si rialzano di colpo, aprono le braccia, le protendono, avanzano a piedi uniti — come vi fosse una molla che produce uno scatto in avanti e indietro. Ma dominante è imprevedibilmente il colore — i deboli colori. La parete di fondo prima è rossa e i corpi appaiono come fossero ombre. Poi diventa celeste, poi verde, poi bianco latte. I costumi ne scaturiscono: colori sfumati, giallo, rosa, verde chiaro, c’è un solo rosso fuoco — quasi fosse casuale.
Se De Keersmaeker al suo Drumming sembrava (e non era) fedele, Sasha Waltz allineata lo è progressivamente sempre di più: lo è fino a mutare il meccanico in fluido, in liquido; fino a compiere (ecco il suo «che cos’è») un inno alla tenerezza.