Corriere della Sera - La Lettura
IO TI DICO ADDIO
«Adesso ti dirò una cosa che mi addolora molto», dichiarò Lars Norén. Era il 30 agosto 2015 a Stoccolma, una giornata estiva calda e polverosa. Non ci eravamo visti per tutto l’anno, limitandoci a qualche sporadico messaggio, ma quel giorno finalmente eravamo riusciti a organizzare un incontro. «Non possiamo più essere amici», proseguì.
«Ah no?», gli chiesi io, sorpresa. Sapevo benissimo che un rapporto di amicizia con Lars Norén poteva finire da un giorno all’altro, o meglio, che sarebbe finito di sicuro. E tuttavia mi colse impreparata.
«E come mai?», gli chiesi ancora.
«Per via della posizione del “Dagens Nyheter” sulla questione Nato», fu la sua risposta. «Non posso accettarla».
Mi diedi il tempo di digerire quell’informazione. Certo, di tanto in tanto collaboravo alla pagina culturale del «Dagens Nyheter», ma senza un contratto fisso. Il mio vero lavoro era scrivere libri per conto mio. Proprio in quel periodo stavo lavorando a 1947 — avevamo appena finito di parlarne, di quello e di una poesia di Paul Celan — per cui la faccenda della Nato mi colse di sorpresa.
«La posizione del “Dagens Nyheter” sulla questione Nato?», ripetei come un automa.
«Esatto», ribadì Norén.
«Non è che per caso ti interessa sapere la mia , di posizione sulla Nato?», provai a obiettare. «È ininfluente», tagliò corto Norén. Devo ammettere che ci rimasi male, ma lui andò avanti senza accorgersi di nulla. «Scrivendo per il “Dagens Nyheter” legittimi la loro posizione. E quindi la nostra amicizia deve finire. Come ho detto, è una cosa che mi addolora molto».
Di quello scambio ne ho parlato in seguito con qualche amico, e poi è tornato fuori nel quarto volume dei diari di Lars Norén, raccontato dal suo punto di vista. Certi dettagli sono stati aggiunti e altri rimossi, e in questo non c’è nulla di strano. Ricordiamo solo ciò che vogliamo ricordare, e dimentichiamo volentieri ciò che vogliamo dimenticare. Ed essere amici di un genio non è sempre facile. A volte si viene amati (come è stato fino al 30 agosto 2015) e a volte disprezzati, come in questo diario. Va bene così. Adesso però certi dettagli della mia vita li voglio raccontare con parole mie, invece di accontentarmi di quelle di Lars Norén.
Ho sempre provato un’ammirazione mista a disgusto davanti allo sterminato progetto autobiografico di Norén (e a quello di Karl Ove Knausgård). Ma che cos’è che li spinge? Non sarà che, al di là delle parole, non sono così sicuri di esistere? Quelle migliaia di pagine sono forse un tentativo di ammassare prove per dimostrarlo?
Persone più intelligenti di me hanno analizzato la loro opera, ma personalmente percepisco soprattutto un’angoscia esistenziale: se non riescono a catturare la vita fino all’ultima virgola, forse quella vita non è neanche stata vissuta. Ora, con Knausgård ho sfumacchiato di nascosto un’unica volta. Con Lars Norén invece ci siamo frequentati per quindici anni, se pur saltuariamente. Eppure ho sempre saputo che un giorno la nostra amicizia sarebbe finita. Su di me si possono dire molte cose — nel suo diario Norén mi ha dato dell’ipocrita, della carrierista, del megafono al soldo di «Dagens Nyheter», arrivando addirittura a dire che gli veniva la nausea quando mi intravedeva sulla Sveavägen (dev’essere stata un’esperienza tremenda) — ma cieca non lo sono mai stata. Mi bastava vedere come organizzava i nostri incontri per capire che nella sua concezione del mondo tutto, o quasi, era rimpiazzabile.
Nel corso degli anni sono sempre rimasta colpita dal criterio con cui selezionava i posti dove incontrarci. Si trattava perlopiù di caffè al di fuori degli itinerari della gente comune, meglio se un tantino d’avanguardia, un passetto avanti rispetto alla tendenza del momento in fatto di locali. Anno dopo anno ne abbiamo fatti fuori una sfilza, perché lo stesso fiuto per lo Zeitgeist che portava Norén a scegliere un posto e farne il suo covo tutto a un tratto lo faceva propendere per un altro. Non ho mai capito il meccanismo che ci stava dietro. Qualcosa era cambiato, o magari niente, i motivi potevano essere dei più vari. Fatto sta che quando Norén abbandonava uno dei suoi caffè prediletti non tornava mai sui suoi passi. Qualcosa mi diceva che lo stesso valeva per i suoi amici. Spesso e volentieri era così efficiente da pianificare diversi appuntamenti nello stesso giorno, uno dietro l’altro, tanto che ognuno di noi finiva per sedersi su una sedia già riscaldata.
Una volta — per l’appunto era la vigilia di mezz’estate, ed era tutto chiuso — finimmo per ritrovarci al 7-Eleven di Birger Jarlsgatan, ognuno con il suo bicchiere di carta. Quel giorno scattai un selfie: io e Lasse con il nostro caffè del venerdì. Quegli incontri mi sembravano un tantino irreali, quasi scollegati dal resto della mia vita, ma decisi di fare tesoro di quell’anomalia. Parlavamo di poesia, dei nostri figli o dei posti in cui eravamo stati. E chiacchieravamo un sacco. Norén adorava le chiacchiere. Tutto ciò che aveva a che vedere con l’essere ebrei, le mie origini, la violenza e le persecuzioni insite nella storia della mia famiglia, tutto suscitava in lui un grande interesse e la voglia di starmi a sentire.
Già allora vedevo che malgrado le nostre differenze — di età, cultura, condizione economica — c’era in entrambi qualcosa che attraeva l’altro, che fungeva da propulsore per la nostra cosiddetta amicizia. Per lui si apriva una finestra sul destino ebraico, dal quale sembrava ossessionato, per me sul mestiere di scrivere, da cui ero altrettanto ossessionata e che agognavo con tutta me stessa. Nell’arco di quasi tutti gli anni in cui siamo rimasti in contatto ho lavorato come giornalista nel servizio pubblico, ho fatto televisione, e avevo così tanta paura di fallire come scrittrice che non mi azzardavo neanche a provarci. In quelle chiacchierate con Lars Norén riuscivo a cogliere per un istante cosa volesse dire trovarsi dentro la letteratura, viverla, scriverla, mangiarla, anche se solo per quell’ora da lui prestabilita. Non ero soltanto una vigliacca, ma anche un’inguaribile romantica.
A volte ci vedevamo una volta al mese, a volte poteva passare un anno tra i nostri incontri. Ma se alcuni potevano risultare un po’ a senso unico, perché consistevano in una dissertazione sul filosofo di turno, che fosse Simone Weil o Martin Heidegger, altri potevano davvero riservare delle sorprese. Come una volta durante il periodo del Café Saturnus. Esaurito il tempo previsto per la nostra conversazione, mi accompagnò alla porta e rimase sul marciapiede mentre mi allontanavo. Quando mi voltai per salutarlo con la mano lo vidi piantato lì, vestito di nero, il viso illuminato da una grigia luce primaverile. Alzò la mano in risposta al mio saluto e mi gridò le parole di Gunnar Ekelöf: «Scrivi! Scrivi!». Grazie, Lars Norén.
Non lo dimenticherò mai. E non dimenticherò neanche i mesi passati a preparare il suo intervento per Sommar i P1 alla radio svedese, che io dovevo produrre. Era il
Si può decidere a freddo di troncare una frequentazione che dura da tanti anni, alimentata da affinità e sensibilità comuni? Sì, si può. È capitato all’autrice di questa storia, che ha un famoso drammaturgo per protagonista. Non è pettegolezzo, ma una parabola esemplare
2003, quel giorno avevo uno studio prenotato per l’occasione e un tecnico in attesa, ma Norén non si fece vedere. L’avrò chiamato almeno una trentina di volte, gli lasciai messaggi, gliene cantai quattro. Nessuna risposta. Sei mesi più tardi venni a sapere da un conoscente comune che aveva intenzione di chiedermi scusa.
Il fatto è che tutti gli elementi che avrebbero finito per caratterizzare la nostra amicizia erano già lampanti fin dal primo incontro, come una sorta di prova generale: la lotta per chi doveva prendere le redini della conversazione, i compromessi a cui si arrivava, e una forte ambivalenza da entrambe le parti. Certe cose però emergono solo in un secondo momento, alla luce di un senno di poi che spesso si rivela inutile.
Correva l’anno 2000, e in qualità di giornalista avevo seguito da vicino le ripercussioni del suo progetto teatrale 7.3, nel quale due veri neonazisti, già condannati e detenuti, salivano sul palcoscenico per esporre la loro ideologia. In seguito uno dei due si era reso complice dell’omicidio dei poliziotti Olov Borén e Robert Karlström a Malexander. Da quel momento in poi Norén aveva sistematicamente evitato i media svedesi per diversi anni, ma poi era arrivata un’apertura.
Avrebbe allestito una produzione di Se questo è un uomo, il testo di Primo Levi sulla sua prigionia ad Auschwitz, sotto forma di monologo per il teatro svedese. Io manifestai il mio interesse (e il mio grande apprezzamento per la scrittura di Primo Levi) a un addetto stampa, e con mia grande sorpresa ottenni un’intervista per conto di Svt Rapport. Le domande erano scontate: perché questa pièce, perché queste parole, perché proprio adesso? Era una sorta di compensazione in seguito al progetto di 7.3?
Ci incontrammo in un locale del Riksteatern. Lars rispose con gentilezza a tutte le mie domande su Primo Levi e sul suo allestimento, ma poi andò su tutte le furie. Di 7.3 non voleva neanche sentir parlare. Si alzò, interruppe l’intervista, disse all’operatore di spegnere la telecamera e fece per andarsene. Parlare del bene e del male, dell’Inferno di Dante e dell’amicizia tra Levi e Pikolo, suo compagno di prigionia, andava bene. Ma il suo lavoro con i detenuti nazisti e le sue responsabilità nello scandalo più eclatante nella storia del teatro svedese a quanto pareva erano tabù. Dopo un’aspra discussione arrivammo comunque a un accordo. Io potei fargli le mie domande, lui mi rispose a monosillabi, e l’intervista andò in onda. In seguito venni a sapere che la trasmissione gli era piaciuta, e che era il motivo che l’aveva spinto a prendere di nuovo contatto con me.
«Ho saputo che l’amico di Primo Levi dai tempi del Lager è ancora vivo! Ti andrebbe di venire con me e girare un documentario sul nostro incontro?».
La sua voce al telefono sprizzava entusiasmo, io ero lusingata dalla proposta e avrei voluto accettare di getto, ma mi trovavo di fronte a un dilemma. Certo, per me era un’occasione di prendermi una pausa dalla redazione e lavorare su una produzione più lunga. Ma che cosa c’era dietro alla proposta di Norén? Perché voleva fare un documentario? Perché voleva incontrare l’amico di Primo Levi, il suo compagno di prigionia ad Auschwitz? E perché voleva che quel documentario lo girassi proprio io? Si trattava di una penitenza, di una strada — tutta ebraica — verso il perdono? Ciò che mi spinse ad accettare fu la possibilità di incontrare monsieur Jean Samuel. Volevo sentirlo parlare di Primo Levi, volevo documentare il suo racconto e volevo stringergli la mano.
Il viaggio per Strasburgo fu un disastro. Norén lo vidi soltanto di spalle. A telecamere spente non ci scambiavamo neanche una parola. Sembrava pentito della sua idea, pieno di disgusto per me, e in preda a un malessere costante. Durante la prima intervista con Jean Sa