Corriere della Sera - La Lettura
So di volerti bene ma non so chi sei
Marco Annicchiarico restituisce in un libro, «I cura cari», il rapporto con la madre malata di Alzheimer che non lo riconosce più: un rapporto creativo dove più che il dolore vince l’amore
Lo dice subito, all’inizio del libro: «Delle poche persone che cerca, l’unico che non riesce mai a vedere sono io. In questa casa piena di oggetti non assomiglio a niente di ciò che ha intorno. Non sono un orologio, una lampada, un giubbotto appeso in anticamera. Parla con ognuna di queste cose e chiede: “Ma Marco dov’è?”». È un’ammissione definitiva, spassionata: «Fra di noi si è creata una frattura e ora non si può tornare a essere figlio, non si può tornare a essere madre. Questi nostri ruoli sono persi per sempre». Una lancinante frattura: «Ogni volta che chiede chi sono, mi vedo diventare nulla. Sento la terra tremare e inghiottirmi senza che lei se ne accorga».
I cura cari di Marco Annicchiarico è la storia vera e straordinaria di quest’«inghiottimento»: ogni giorno la balena dell’Alzheimer, la balena della copertina del libro, inghiotte Marco e Lucia, l’io narrante e la madre che parla a tutte le cose cercando invano il figlio che in realtà le sta sempre accanto. È un’esperienza vissuta da migliaia e migliaia di caregiver ,i «cura cari» (copyright Flavio Pagano) che danno il titolo al libro. Che cosa può esserci di più straziante di questo perduto riconoscimento, una tragedia degli equivoci che va in scena sempre? La prima volta madre e figlio erano seduti in tram: «Si è girata verso di me, ha sorriso e poi ha chiesto a bruciapelo: “Scusa un po’, ma tu di preciso chi sei?”».
Ho letto questo libro in pdf, sul tablet. Anziché sottolineare, ho fatto gli screenshot alle pagine che volevo ricordare. Alla fine, mi sono accorto di aver fotografato praticamente ogni pagina. Ognuna ti fa stringere il cuore e ti strappa un sorriso. Alcuni episodi fanno già parte del patrimonio prezioso dei cura cari italiani: sono circolati su internet e su riviste, hanno colpito lettori e letterati. All’ultimo Alzheimer Fest, a Firenze, un affascinato David Riondino ne ha lette un po’ sotto una tenda e ogni volta esclamava stupito:
Diario «Marco, ma che mamma hai?».
Una mamma che il figlio chiama con il nome di battesimo, Lucia, «da quando mi ha detto a muso duro che lei non è mai rimasta incinta: “Io non ho mai avuto la pancia! Figuriamoci se facevo un figlio come te”». Il suo introvabile Marco è rimasto quello della foto in camera, un bambino biondo di tre anni. L’uomo con la barba che le sta vicino è un fratello, un cugino, un estraneo: «Mi chiama vecchietto, altre volte papà». I cura cari sono punching ball sul ring dell’Alzheimer. Incassano, incassano. Somatizzano, magari ingrassano. Finché cominciano a buttare fuori. Marco dal ventre della balena, dalla pancia della casa di Milano dove vive ormai a tempo pieno con Lucia, comincia a sputare fuori racconti. Fanno bene a lui, e fanno bene a chi legge. Esiste ormai una folta letteratura «dei» e «sui» caregiver. Annicchiarico scrive splendidamente, ha il ritmo e i tempi giusti, la freddezza e il pathos. I suoi «raccontini» avrebbero catturato Totò ed Enzo Jannacci, Joseph Conrad e Italo Calvino. Eppure mancava qualcosa, qualcosa che scopriamo essere fondamentale leggendo I cura cari. Filando con il passo del romanziere, Marco ci mostra il tessuto connettivo che lega ogni episodio, ogni perla di ironia, ogni boccone inghiottito: la sua vita di prima, la musica, la Sicilia, i medici più o meno attenti o stronzi, l’apatia e la depressione, la vita che riprende a tentoni con Marta, gli amici, le birre, il matrimonio. E al centro del gorgo, nel periodo forse più buio, fa da perno la figura del padre, che nel pieno della deriva dell’Alzheimer che ha colpito la moglie si ammala lui stesso, di un tumore che non lascia speranza. Marco si prende cura di entrambi, di Sebastiano e di Lucia, medica il loro rapporto fatto di tenerezze nascoste e manifeste incomprensioni: «Sto conoscendo i mei genitori in una veste insolita, non più come genitori ma come persone. Le loro malattie, penso, me l’hanno permesso».
L’Alzheimer finisce per ammutolire il cervello di chi inghiotte. Eppure c’è un tempo, che può essere lungo, in cui il linguaggio si ribella e più che implodere si scatena. È un altro aspetto meraviglioso de I cura cari: le parole tra il figlio e la madre, il lessico familiare che si sviluppa nella pancia della balena, può appassionare tanto i neurologi quanto i poeti. Tra allucinazioni e improvvisi «ritorni» di consapevolezza, Lucia parla con gli oggetti, con i passanti, con i vivi e con i morti. In libertà. E Marco, il figlio onnipresente eppure «trasparente» che lei non riconosce, le fa da spalla in modo impeccabile. Come Totò (che Lucia adora) e Peppino. Certo, nessuno è un santo e a volte l’impazienza scatta, come quando lei di nascosto condisce l’insalata con il detersivo dei piatti, o quando mangia bellamente l’uva al supermercato davanti a un’allibita guardia di sicurezza. Marito e figlio si vergognano, le dicono che non si prende l’uva così. E lei ribatte: «Ma se ho visto un sacco di gente che la portava via nei sacchetti!». Se Lucia è un po’ Totò, Marco assomiglia più al Carlo Campanini che faceva da secondo a Walter Chiari. Sta spesso al gioco, anche se il gioco (linguistico) è doloroso perché è il segno della malattia che avanza: «Così se mia madre dice: “Sto quasi tracinata, forse sono un po’ li bracci di sela da sotto”, io prendo le parole che ha inventato e le uso: “Eh, ma guarda che li bracci di sela adesso saranno sopra e sono messi bene, così non stai per tracinata ed è meglio”. Poi aspetto di vedere la sua reazione, per capire che cosa vuole comunicare». Da un lato, scrive Annicchiarico, «la demenza ha reso più povero il nostro linguaggio e dall’altro l’ha potenziato. Si può dire che il nostro sia quasi un atto creativo».
Si può dire che quello tra Lucia e Marco sia un amore creativo, memorabile come il libro che lo racconta. I ruoli di madre e figlio vengono sublimati, alla faccia della frattura e della balena: «So di volerti bene — dice lei a un certo punto — ma non so dirti esattamente chi sei».