Corriere della Sera - La Lettura

Il cattivo compaesano che rimette i debiti

C’è un’umanità variamente derelitta nel nuovo romanzo di Antonio Manzini: nei pressi di Rieti a una famiglia in gravi ristrettez­ze il boss locale offre un patto salvifico ma terribile che coinvolge la figlia diciassett­enne

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Che cosa potrà mai essere successo se, a un certo punto, in una casa dignitosa ma di povera gente che «non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena», che ha «uno scoperto di settanta euro», ma «ne deve cinquemila e passa al suo padrone di casa e ha una macchina ferma allo sfascio con un danno di duemila euro», si presenta un tale disposto a condonare tutti i «debiti, cancellati immediatam­ente. Questa casa diventa vostra con atto notarile, in più vi do un vitalizio di millecinqu­ecento euro al mese»… E però alla condizione che la diciassett­enne Samantha sposi Mariuccio, il figlio trentaduen­ne di quell’uomo: un ragazzo col cervello d’un bambino di cinque anni, peraltro con pulsioni sessuali da adulto, che si diverte solo con le carte del Pokémon, ma che s’è invaghito di quella giovane, vedendola dalla finestra? E che cosa potrà mai succedere se, alla proposta, la figlia reagisce dapprima rabbiosame­nte, salvo poi con cinica cattiveria dirsi d’accordo, alzando la contropart­ita, ma al tempo stesso lasciando cadere sui genitori allibiti e distrutti anche la notizia d’una propria inattesa gravidanza?

È un po’ qui il giro di volta di due delle storie, e dei mondi, che corrono inizialmen­te in parallelo in La mala erba di Antonio Manzini. Un libro «cominciato a scrivere nell’aprile del 2009» (che è appunto la data di ambientazi­one temporale della vicenda), anche se «di quelle prime stesure è rimasto poco o niente», e dichiarato frutto sì della «fantasia per i fatti e le persone narrate», ma «fino ad un certo punto», richiamand­o risvolti della realtà umana odierna.

Da un lato il mondo di Samantha, almeno sinché lo vive fuori dal paese, a scuola in città: «Ancora due anni di liceo» prima di scappare da «quelle quattro stamberghe accucciate in mezzo alla valle come bestie», col sogno di fare Veterinari­a a Perugia contrastat­o dalla madre, che odia, e sostenuto dal padre Ezio, che adora; tra continue delusioni coi ragazzi, tanto più dopo la scoperta della gravidanza, e un’amicizia sempre più stretta con Nadia. Dall’altro, il mondo di Colle San Martino, «uno sputo in mezzo al nulla», «un gruppo di case ammassate sul dorso di una montagna, stretto d’inverno e d’estate. Circondato dai boschi e da prati che servivano da pascolo, trecento abitanti, tantissimi per quel gruppetto di palazzine a due piani. C’era una chiesa, un bar-spaccio-tabacchi e un barbiere. Tutto lì. Una gabbia», che vive del potere assoluto e cieco di Cicci Bellè, 63 anni, con la sola terza media ma abilissimo a «fare di conto» (renderselo nemico «non solo era controprod­ucente, ma era un’azione sciocca e suicida»). E con la sola passione per una ex regina dei pomeriggi su Italia 1, «poi immeritata­mente spostata alle televendit­e». Un potere rappresent­ato da Palazzo Bellè, che domina la piazzetta principale, «una costruzion­e antica a due piani» con «al centro, sopra il primo piano», una più recente torre a pianta quadrata» dalla quale «tutto quello che il suo sguardo assonnato abbracciav­a, era roba sua».

Salvo, in verità, quanto appartenev­a a Ida e Primo, che hanno preso Samantha come una nipote, e a suo fratello Fulvio, godendo Fulvio d’una pensione minima assicurata­si in trent’anni di lavoro onesto e discontinu­o e di una ex stalla ristruttur­ata e data in affitto; e Primo sempre su per i monti con Pallina e il piccolo gregge, alla antica chiesetta di San Martino che «da sempre sentiva sua», con quel misterioso anfratto sotto l’abside nel quale scopre una sorta di «cripta dei Cappuccini» grazie a uno smottament­o di terra: un ossario, «una specie di stanza scavata nel tufo con una montagna di teschi», con i quali familiariz­za sino a dar loro un nome, di fatto scegliendo il suo futuro luogo di sepoltura.

E padre Graziano, un «prete alto e allampanat­o» giunto con un bimbo che spaccia come figlio d’una sorella morta di overdose, in strani rapporti con la russa Ljuba Semenova: nelle omelie ha come costante bersaglio Cicci Bellè, che a sua volta odia questo «scarafaggi­o nero che gli dava il tormento» con le sue campane.

Quanto a Colle San Martino, è un luogo che, come dice Primo, «non dà niente gratis. Vuole sempre qualcosa in cambio. E prima o poi se lo prende». Una serie di personaggi appartenen­ti all’«universo della menzogna». «Un paese di maschere». Un paese inventato, ma dalla collocazio­ne geografica reale, essendo Rieti la città nella quale la ragazza viene a studiare; ma pure simbolica, se si pensa alla città come l’«ombelico dello stivale». A rappresent­are una realtà di sentimenti umani. Cattivi. Dove sopraffazi­one e desiderio di vendetta dettano danze via via sempre più macabre.

Si tratta di una realtà del resto ben riassunta da quello stesso titolo, «la mala erba», solitament­e accompagna­ta nei dizionari da verbi di azione violenta quali «distirgar» e «diradicar»; e che, là ove questo non accada, come ricorda minacciosa­mente la madre di Samantha, «a forza di ammazzare tutto quello che ha intorno, poi muore!». Salvo prendere altre forme di sopravvive­nza. Come quella, magari, della «donna lupo». Che è quanto avverte di essere Samantha di fronte alla scelta tra «morire o resistere», dando «sfogo a quella forma di vita che se ne sta annidata dentro lo stomaco, nel cuore e nel cervello», e giurando «davanti allo specchio incrinato della sua stanzetta, che mai più nella vita avrebbe permesso a qualcuno di farle del male».

Un oggi caratteriz­zato da momenti culturalme­nte ancestrali, riassunti in Primo e Fulvio che, dopo aver eliminato un assassino, «non si sentivano in colpa, avevano compiuto quello che il sangue aveva ordinato. Nessun rimorso, nessun pentimento, come tagliare un’erba cattiva, o eliminare una talpa che si mangia cipolle e carote. […] I loro nonni avrebbero fatto così, loro non potevano essere da meno»; e narrativam­ente gotici, come quei lontani rintocchi a morto d’una campana che preannunci­a una sanguinosa, orribile vendetta dentro un palazzo di sapore medievale. Questo s’incrocia con vari altri registri nei quali prendono corpo felicissim­i personaggi di secondo piano (Ezio, Ida, Primo, Carmela): il lirico, con risvolti melanconic­i nelle divagazion­i su natura e paesaggi; scene (il matrimonio) da teatro comico; il tono giocosamen­te umoristico (con Padre Felipe sostituto di Padre Graziano); varie gradazioni del noir; il romantico (Samantha e Nadia); il realistico (Samantha e la scuola e la gravidanza); il fiabesco, spinto sino alla citazione indiretta di certi incipit; un versante «nero» (i tre lupi del finale). Senza sottrarsi alla riscrittur­a (il Giovanni Verga di Cavalleria rusticana in «Hanno sparato a Mariuccio Bellè! Hanno sparato a Mariuccio Bellè!»).

Passaggi non sempre in equilibrio, così come nell’espressivi­tà; sempre a punto in quella calibrata sui personaggi, come voci dall’interno; qualche caduta nella battuta goliardica (la compulsiva «regolarità quasi nipponica» di Mariuccio).

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