Corriere della Sera - La Lettura

La Seconda (lunghissim­a) guerra mondiale 1931-1945

Lo storico inglese Richard Overy spiega perché anticipa l’inizio del conflitto all’invasione giapponese della Manciuria

- Di FULVIO CAMMARANO

Lo storico inglese Richard Overy è uno tra i maggiori specialist­i della Seconda guerra mondiale. È appena uscito in Italia da Einaudi un suo lavoro complessiv­o, Sangue e rovine, che ripercorre le vicende del conflitto con grande attenzione anche al teatro di operazioni del Pacifico. Proprio questo approccio lo induce a cominciare la narrazione molto prima del 1939, dell’invasione tedesca della Polonia considerat­a solitament­e il punto d’avvio della guerra. La ricostruzi­one di Overy si apre nel settembre 1931, quando le forze giapponesi occuparono la regione cinese settentrio­nale della Manciuria. Da questa scelta siamo partiti per approfondi­re con l’autore i contenuti del libro.

A proposito di cronologia del conflitto, lei, anche se si dichiara d’accordo con la tesi secondo cui vi sarebbe stata una «guerra dei trent’anni» dal 1914 al 1945, sembra volere introdurre un’autonomia cronologic­a per quanto riguarda la Seconda guerra mondiale, collocando­la nel periodo 1931-1945 a partire dall’invasione giapponese della Manciuria. Se è vero che la crisi del 1929 è stata determinan­te per favorire l’ascesa al potere di Hitler, è anche vero che instabilit­à politica, fragilità economica e fascismo come autoritari­smo con aspirazion­i totalitari­e facevano già parte dell’esperienza successiva alla Prima guerra mondiale. Che ne pensa?

«Non c’è dubbio che una crisi globale, e non solo una “guerra dei trent’anni”, si è estesa dalle guerre dell’inizio del XX secolo ai decenni successivi al 1945. Questo è stato principalm­ente il risultato della competizio­ne imperiale e del clima di insicurezz­a, a fronte del crescente nazionalis­mo in Asia, Africa e Medio Oriente che ha successiva­mente condotto al mondo degli Stati-nazione nel XXI secolo. Personalme­nte, sostengo che a scardinare completame­nte l’ordine globale sia stata la crisi economica del 1929-1932, che ha spinto un’agenda nazionalis­ta radicale in Italia, Giappone e Germania a favore dell’acquisizio­ne di un maggiore numero di territori (per l’insediamen­to, le risorse, eccetera) e della creazione di un proprio blocco economico autarchico, che ciascuno potesse dominare, per eguagliare il blocco della sterlina, del franco e così via. In tutti e tre i Paesi si pensava che questo sarebbe stato il futuro dell’economia mondiale e che solo un impero territoria­le più grande lo avrebbe reso possibile, come gli imperi di Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi. Da qui deriva la data di partenza fissata al 1931, quando la prima delle potenze revisionis­te, insoddisfa­tte dell’esito della Prima guerra mondiale, si lanciò in una violenta espansione territoria­le».

Il suo è uno dei primi libri sulla Seconda guerra mondiale in cui uno storico non italiano mette in primo piano il ruolo del nostro Paese. C’è un motivo per cui l’Italia sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale, viene sempre trascurata? Dipende solo dalla conoscenza linguistic­a o è frutto di uno

stereotipo che tende a ridurne la rilevanza?

«Ho cercato di dare uguale spazio a ciascuna potenza dell’Asse, compresa l’Italia. Nella maggior parte delle storie generali di Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, all’Italia non viene dato molto risalto. Ciò è dovuto in parte alla lingua, ma soprattutt­o, credo, al fatto che la prestazion­e militare dell’Italia in entrambe le guerre mondiali non è giudicata molto bene. In Gran Bretagna, la campagna in Italia tra il 1943 e il 1945 è considerat­a importante per gli storici solo perché gli eserciti alleati stavano combattend­o contro i tedeschi, non tanto contro gli italiani. Come ha sottolinea­to Nicola Labanca, le forze dell’Impero britannico hanno impiegato tre anni per sconfigger­e l’esercito italiano in Nord Africa, quindi l’Italia

Le foto della pagina a destra riguardano l’invasione giapponese della provincia cinese della Manciuria, avviata nel settembre del 1931. In alto: truppe nipponiche entrano nella città mancese di Qiqihar il 19 novembre 1931. In basso: carri armati F 17 Renault di fabbricazi­one francese catturati dalle forze giapponesi ai cinesi subito dopo il cosiddetto

«incidente di Mukden», un attentato ferroviari­o organizzat­o dai giapponesi stessi come pretesto per invadere la Manciuria dovrebbe essere presa in consideraz­ione più seriamente».

La «guerra dei trent’anni» è una guerra di imperi-nazione e dunque va letta, come lei suggerisce, dal punto di vista della lotta per l’ambizione imperiale. Si può dire che in quegli anni il nazionalis­mo non avesse altro modo di esprimersi se non come imperialis­mo?

«Uno degli argomenti principali del mio libro è quello di vedere la crisi degli anni Trenta e Quaranta nei termini del “nuovo imperialis­mo” che si è sviluppato a partire dagli anni Settanta del XIX secolo, in concomitan­za con l’ascesa della politica di massa e l’emergere del nazionalis­mo popolare. Un modo per definire la nazione era quello di possedere un impero, motivo per cui Giappone, Germania e Italia ne volevano uno per eguagliare le altre grandi potenze. L’idea di “imperonazi­one” si è radicata alla fine del XIX secolo e ha creato una mentalità che è sopravviss­uta fino agli anni del primo dopoguerra. I nazionalis­ti radicali in Italia, Germania e Giappone abbracciar­ono questo concetto, ma bisogna ricordare che l’impero era molto importante (e si espanse negli anni Venti) anche per Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi e Belgio. Il nazionalis­mo avrebbe potuto essere espresso in modo diverso, e in effetti lo fu in molti casi, ma resta il fatto che per le grandi potenze l’impero sembrava il modo legittimo di esprimere un senso di superiorit­à culturale e razziale che giustifica­va il controllo dei popoli assoggetta­ti».

Concorda con l’idea che non furono le occupazion­i territoria­li in sé ad allarmare le tradiziona­li potenze imperialis­te quanto il fatto che tali occupazion­i apparvero l’espression­e di una volontà di potenza che sembrava presentars­i senza limiti perché basata su una ideologia di primato su base razziale e ideologica?

«Non c’è dubbio che le ambizioni territoria­li dell’Asse fossero viste dagli altri imperi come un pericolo estremo per i loro interessi geopolitic­i, ma non credo che la differenza ideologica li preoccupas­se tanto quanto il costo in termini di difesa degli imperi e degli interessi economici globali consolidat­i. Per le potenze dell’Asse era difficile capire perché i britannici e i francesi si opponesser­o così tanto al fatto che altri avessero un impero, dal momento che loro stessi disponevan­o di vasti territori coloniali. Fu l’aggression­e territoria­le contro Stati membri della Società delle Nazioni, non considerat­i un potenziale spazio coloniale, a spingere l’Occidente in prima battuta al contenimen­to e alla deterrenza, e successiva­mente alla dichiarazi­one di guerra».

Come ha scritto Robert Conquest, il Novecento è stato il secolo delle «idee assassine» e la Seconda guerra mondiale è stata sicurament­e la guerra più ideologica mai combattuta nell’età moderna, dopo le guerre di religione del XVI-XVII secolo. A suo avviso quale fu il ruolo delle ideologie totalitari­e nel determinar­e l’ampiezza, l’andamento e la ferocia di quel conflitto?

«A mio avviso, al ruolo dell’ideologia come causa della Seconda guerra mondiale è stato dato troppo peso. È possibile convivere con ideologie rivali, come dimostrò la firma del Patto tedesco-sovietico nell’agosto 1939. L’ideologia di entrambe le parti fu mobilitata in guerra per mantenere le popolazion­i interne impegnate nel conflitto (ad esempio la Carta Atlantica e le Quattro Libertà di Roosevelt), ma la lotta era in realtà volta ad annullare l’imperialis­mo territoria­le delle tre potenze dell’Asse, potere a cui nessuna delle tre sarebbe stata disposta a rinunciare dopo averlo acquisito. Credo che il calcolo geopolitic­o fosse più importante delle differenze ideologich­e. Altrimenti, come si spieghereb­be la capaci

tà dell’Impero britannico, dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti di collaborar­e insieme? L’ideologia contò molto di più nella guerra fredda che seguì la vittoria del 1945».

I Paesi dell’Asse nella sua interpreta­zione sembrano quasi destinati ad unirsi per perseguire una politica imperiale, ma non ritiene invece che sia stata, nei fatti, un’alleanza occasional­e e non molto coordinata tra stati condiziona­ti dall’essere i reietti della Società delle Nazioni, alla ricerca di una rivincita egemonica nell’arena internazio­nale e che avevano come unico punto in comune, oltre allo spirito revanscist­a, l’ostilità alle democrazie occidental­i e al comunismo?

«È vero che le tre potenze dell’Asse non costituiva­no un “Asse” in senso proprio, ma di recente gli storici hanno iniziato a esplorare più da vicino i legami tra di esse. Le tre nazioni erano infatti unite dall’ostilità verso l’Occidente e i “valori liberali” occidental­i e dalla paura del comunismo, ma condividev­ano anche l’idea che per mano loro sarebbe cambiata la mappa geopolitic­a del mondo. Considero il Patto Tripartito del settembre 1940 un momento decisivo, spesso trascurato dagli storici, in cui i tre Stati definirono la loro visione di un nuovo ordine globale. Il problema era trovare un mezzo di cooperazio­ne strategica, mancando il controllo dei mari o la possibilit­à di condivider­e le risorse economiche e militari. Ne risultò che l’Asse era una coalizione fragile. La potenza navale occidental­e e la legge «affitti e prestiti», utilizzata dagli Stati Uniti per aiutare gli alleati ancora prima di entrare in guerra, invece, furono essenziali per tenere insieme una coalizione antifascis­ta anch’essa potenzialm­ente fragile. Si potrebbe inoltre sostenere che anche gli Alleati combattero­no guerre molto separate, geografica­mente e strategica­mente. Nessun sostegno diretto venne dato all’Unione Sovietica che dovette combattere tre anni da sola contro il grosso delle forze armate tedesche. Anche gli Stati Uniti combattero­no nel Pacifico senza alcun aiuto, se si eccettua un limitato sostegno australian­o. Il Mediterran­eo non rivestiva grande interesse per Stalin e fu accettato solo con grande riluttanza da Roosevelt come teatro di guerra per gli Stati Uniti. A nessuno dei partner della Gran Bretagna piaceva l’idea della campagna italiana. Al momento dell’invasione della Francia nel giugno 1944, le forze sovietiche erano già pronte ad entrare nell’Europa orientale senza l’aiuto degli Alleati. Il fattore chiave fu in effetti la legge «affitti e prestiti». La potenza industrial­e americana contribuì a sostenere lo sforzo bellico sia britannico che sovietico, sebbene nessuna delle due potenze fosse disposta ad ammetterlo dopo la fine della guerra. Il crollo della cosiddetta “Grande Alleanza” nel 1945-46 non fu quindi una sorpresa. La retorica della collaboraz­ione mascherava la realtà di tre diverse visioni della guerra e del mondo del dopoguerra».

È possibile affermare che oggi l’imperialis­mo non è più praticabil­e nelle tradiziona­li forme territoria­li, anche se continua a rimanere in vita attraverso altre nuove pulsioni?

«L’imperialis­mo territoria­le, del tipo praticato dalle potenze europee a partire dal XVI secolo, è terminato drammatica­mente non solo nel 1945, ma anche negli anni Sessanta, quando i principali imperi sopravviss­uti alla Seconda guerra mondiale furono liquidati. L’impero è oggi usato in senso metaforico per descrivere il comportame­nto delle moderne potenze egemoniche (Urss/Russia, Usa e Cina), ma è fuorviante paragonarl­o all’imperialis­mo di un’epoca precedente, che prevedeva l’assoggetta­mento delle popolazion­i indigene e il loro sfruttamen­to economico. Questo vale per l’espansione di Putin in Ucraina, che è guidata dal nazionalis­mo e dall’irredentis­mo russo ma non, vorrei dire, da un rinnovamen­to di un vecchio modello di impero».

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L’offensiva
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