Corriere della Sera - La Lettura
I mugugni di Pechino restano chiusi in casa
Amico di Ai Weiwei, artista, Meng Huang vive e lavora in Germania. Gli abbiamo chiesto del disagio che si diffonde nella Repubblica popolare. «Voci critiche? Gli intellettuali non esistono»
Meng Huang è un artista proiettato su due mondi. Nato a Pechino nel 1966, da oltre un decennio trascorre gran parte dell’anno a Berlino, dove ha casa, famiglia e, ovviamente, un atelier. Intellettuale legato all’immagine (è anche fotografo e non disdegna le installazioni), è però attento all’aspetto teorico della pittura, le sue implicazioni sull’agire umano e la rilevanza politica dell’esperienza estetica. Collega e amico di Ai Weiwei («la Lettura» ha pubblicato un colloquio tra i due sull’arte il 2 settembre 2018), nel suo Paese non è considerato un dissidente dalle autorità anche se si è impegnato in prima persona, per esempio, per la liberazione del premio Nobel per la pace Liu Xiaobo. Forse la sua «non presenza» continuativa nel territorio della Repubblica popolare lo ha fatto scivolare nel limbo degli «innocui».
Fatto sta che Meng, come molti altri protagonisti della cultura, vive in maniera problematica i cambiamenti in senso illiberale portati dall’era del Nuovo Timoniere, Xi Jinping. «È come tornare al punto di partenza. Il cerchio della storia che si ripete. Lo abbiamo potuto osservare — ci dice — al recente Congresso del Partito comunista: l’umiliazione inflitta a Hu Jintao, messo alla porta di fronte all’intera nomenklatura, immobile e in apparenza indifferente alla sorte dell’anziano leader. Ma la verità è un’altra: Xi Jinping è il nuovo padrone assoluto, esattamente come lo era Mao Zedong. I dirigenti che gli sono intorno temono per sé e per le proprie famiglie: la loro fedeltà nasce dalla paura».
Da tre anni pandemia e politica «zero Covid» obbligano milioni di persone a trascorrere lunghi periodi di fatto agli arresti domiciliari. La Cina è attraversata da proteste e scontri, anche duri, tra cittadini esasperati e autorità. Qualche concessione è arrivata ma il malcontento è diffuso. C’è un qualche tipo di opposizione organizzata?
«Le restrizioni per il virus hanno, se possibile, ridotto gli spazi di libertà e critica dei cinesi. Il governo, per perseguire l’utopia del Covid zero, ha demandato ai comitati di quartiere il compito di regolare i blocchi. E ovviamente impartire le punizioni ai trasgressori. Tutto questo ha portato le tensioni oltre il limite accettabile. La crudeltà dei guardiani è stata ed è intollerabile. Lo abbiamo visto: sono morti i residenti di palazzi in fiamme. Malati gravi non sono potuti andare all’ospedale e sono spirati in casa. Tuttavia, a dispetto di quel che si può immaginare, il coraggio di contrastare alla luce del sole la politica ufficiale del governo non è diffuso. Al contrario. Di nuovo, è la paura a trattenere i cittadini: di finire tra le spire di un regime che non tollera il minimo dissenso. Ora meno che in passato».
E gli intellettuali? Nemmeno da loro un aiuto a immaginare una realtà differente? Un contrasto «intelligente» di quanto viene imposto, senza discussioni, dall’alto?
«Gli intellettuali? Ma gli intellettuali, rispetto a una popolazione di un miliardo e 400 milioni di cinesi, sono una manciata di individui. Poi, definiamo chi è un intellettuale. A mio avviso, è quella persona che non si limita ad accumulare conoscenza. Piuttosto, è qualcuno capace di assumersi il compito di intervenire nella società in tempi di crisi, offrendo soluzioni alternative alla visione del potere. Soprattutto, deve mettere le sue doti al servizio dei più deboli, dei perseguitati. Con in mente questa definizione, possiamo dire che in Cina gli intellettuali, semplicemente, non esistono. Tutti coloro che hanno provato a criticare il nostro sistema totalitario sono in prigione o ridotti al silenzio. Certo, esistono poeti, scrittori, artisti che guardano all’Occidente, alle libertà che si esprimono senza timori dall’altra parte del mondo: ma di quel mondo lontano si limitano a imitare stile ed espressività, non i contenuti. I mugugni restano all’interno delle pareti domestiche».
Tuttavia, Xi Jinping appare ancora impegnato a dialogare con Europa e Stati Uniti. Il confronto porta a influenzarsi a vicenda, a cercare compromessi…
«La Cina è uno dei maggiori beneficiari dalla globalizzazione, questo ormai è un dato di fatto. L’apertura al commercio mondiale ha trasformato il nostro Paese, lo ha arricchito con grande velocità tanto che non è lontano il sorpasso economico sugli Stati Uniti. Ma fermiamoci un attimo a guardare quanto è successo. Noi siamo diventati la fabbrica del mondo e intendiamo continuare su questa strada. L’altra faccia della medaglia è come siamo arrivati a questo punto: è proprio lo sfruttamento di milioni di individui privi di sostanziali diritti civili che ha permesso il passaggio da società agricola a società industriale avanzata. Ci ha guadagnato anche l’Occidente? Sì, molto e potete immaginare quale prezzo hanno pagato i cinesi. E oggi ci ritroviamo in un Paese che viene percepito come una minaccia. Il paradosso è che l’interdipendenza dei due mondi è il motore immobile di questo processo. Al momento è la Cina, o meglio lo Stato cinese, a guadagnarci di più».
Il resto del mondo ha cominciato a temere il ritorno del Celeste Impero…
«Gli attuali leader cinesi non si accontentano del primato economico, questo è certo. Hanno ambizioni più grandi, vogliono un posto nella comunità internazionale che metta al riparo il regime da critiche e minacce. Vogliono primeggiare. Non so tuttavia se l’obiettivo sia quello di “governare il mondo”. Per fare questo ci vuole un esercito potente e noi non lo abbiamo. Però è vero che tutti gli imperi, nel passato, hanno seguito la stessa, identica dinamica: pensiamo a Roma, alla Russia zarista, alla Gran Bretagna, alla stessa Cina delle grandi dinastie. Questo perché in sistemi dove le critiche e i contrappesi al potere non esistono, la volontà di potenza è inarrestabile. E il fato sempre uguale».
In che senso?
«Faccio soltanto un piccolo esempio per capire come funziona la Cina. Anni fa Pechino ha lanciato l’iniziativa “One Belt, One Road”, un modo per mettere la nazione al centro dei commerci globali e ampliare la sua influenza sulle rotte della ricchezza. Poi è arrivata la pandemia. E, per dimostrare la superiorità del sistema cinese su tutti gli altri, è stata lanciata la politica “zero Covid”, perché noi saremmo stati capaci di cancellare il virus dalla faccia della Terra soltanto perché avevamo deciso così. Ora sappiamo che non funziona in questo modo. Il Covid è ancora qui a minacciarci. Ma nessuno paga: perché il regime non sbaglia mai. E se sbaglia, come in questo caso, è vietato anche il solo pensarlo».