Corriere della Sera - La Lettura

Goethe e Schiller compagni d’anima

Di

- ROBERTO GALAVERNI

La prima edizione del carteggio tra Johann Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller fu stampata in sei volumi, per iniziativa e sotto la supervisio­ne del primo, tra il 1828 e il 1829. Schiller mancava da più di due decenni: era morto infatti di tubercolos­i, a soli quarantaci­nque anni, nella primavera del 1805. Mentre Goethe, che era giunto allora alla soglia degli ottant’anni, all’interno della cultura tedesca rivestiva già da tempo il ruolo di un illustre, venerabile, ma anche un po’ polveroso sopravviss­uto. Veniva da molto lontano, infatti. O meglio, da un’epoca in cui la storia europea aveva avuto un’accelerazi­one di tale intensità — la Rivoluzion­e francese e il crollo dell’Ancien Régime, quindi l’età napoleonic­a — da essersi come allontanat­a, per paradosso, da sé stessa.

Scritte nell’arco di poco meno di undici anni, tra il giugno 1794 e l’aprile 1805, queste lettere (sono più di mille!) in cui si parla di poesia e di processi creativi, di letteratur­a e di arte drammatica, di libri e di riviste, ma anche della vita quotidiana, di familiari, di amicizie, affondano le loro radici comunque lì, in quell’età fecondissi­ma di scontri e di trapassi che non sono solo storico-sociali, ma poetici e più generalmen­te estetici. È l’età in cui sullo spirito dei lumi s’innesta un classicism­o inquieto e straordina­riamente ricco di sollecitaz­ioni e aperture, di cui appunto Goethe e Schiller sono considerat­i, almeno in ambito tedesco, gli esponenti più autorevoli; ma è anche l’età dell’avvento del Romanticis­mo, che finirà in breve per relegare nella parte del vetusto e sorpassato tutto ciò che Romanticis­mo non era.

L’edizione integrale dell’imponente quanto eccezional­e corrispond­enza tra Goethe e Schiller (gli aggettivi in questo caso non sono sprecati), comprensiv­a tra altro di annotazion­i a ogni singola lettera, è uscita da poco in traduzione italiana per Quodlibet: Carteggio 1794-1805 ,acura di Maurizio Pirro e Luca Zenobi. Ed è una buona notizia, perché fino a oggi il lettore italiano aveva a disposizio­ne soltanto la scelta parziale uscita nel lontano 1946 per Einaudi (esaurita da decenni, è stata riproposta qualche anno fa da Ghibli), mentre questo carteggio merita davvero di essere letto per intero.

Certo, ci sono lettere di entrambi i corrispond­enti che mettono compiutame­nte a fuoco questo o quell’argomento poetico, e più in genere creativo. Lettere, diciamo così, da antologia. Eppure un carattere distintivo del carteggio sta nel suo procedere serrato, nel suo ritmo come di botta e risposta. Goethe risiedeva a Weimar e Schiller a Jena, dunque non molto lontano (poi, col nuovo secolo, anche lui prenderà casa a Weimar); il servizio postale — potrà sorprender­e — funzionava egregiamen­te, e soprattutt­o i due avevano una necessità non solo intellettu­ale, ma psicologic­a, fisica persino, delle opinioni, dei consigli, degli stimoli e, insomma, della presenza costante dell’altro. Fatto sta che di molti argomenti è possibile seguire lo svolgiment­o progressiv­o, davvero passo a passo, tra dubbi, aggiustame­nti di tiro, richieste di spiegazion­i ulteriori e pronunciam­enti definitivi. Tanto più nelle questioni importanti, il filo del discorso di regola non viene lasciato cadere. E questo consente di leggere la corrispond­enza non troppo diversamen­te da un romanzo epistolare.

In verità, prima di iniziare il carteggio e quando ancora non si conoscevan­o di persona, non è che si stimassero granché. Tuttavia, fin dalle prime lettere mostrano entrambi uno stesso desiderio d’inoltrarsi nella conoscenza reciproca, come per l’avvertimen­to comune di un incontro predestina­to che, col senno di poi, fa pensare davvero che quell’amicizia fosse scritta nelle stelle.

È Schiller a scrivere a Goethe, che aveva dieci anni più di lui e già da tempo era una leggenda delle patrie lettere (e non solo), per invitarlo a collaborar­e a le «Horen», una rivista d’arte, scienza e letteratur­a. Goethe accetta con convinzion­e, ma quello che colpisce di più è l’intesa che si stabilisce d’acchito tra i due interlocut­ori. Il discorso s’incendia già nelle primissime lettere, e i due senza meno cominciano a fare sul serio. A partire da Schiller, che già nella sua seconda lettera s’azzarda in un ritratto a tutto tondo del suo illustre corrispond­ente: «Da tempo ormai, sebbene da una certa distanza, ho osservato con sempre rinnovata meraviglia il percorso del Vostro spirito e la via che avete tracciato». E per parte sua Goethe comprende subito che l’entusiasmo del futuro amico avrebbe potuto essere decisivo per rilanciare le sue motivazion­i e la sua spinta creativa, che dopo il rientro nel 1788 dal lungo viaggio in Italia risultavan­o un po’ intorpidit­e («con la Vostra vicinanza mi esortate a un uso più risoluto e vitale delle mie energie»).

Da quel momento le lettere non smettono più fino alla morte di Schiller, coinvolgen­do il meglio che la cultura tedesca (e a volte europea) poteva offrire in quel periodo di fioritura artistica e speculativ­a difficilme­nte eguagliabi­le. Basta scorrere l’indice dei nomi del volume. Con un’intelligen­za a dir poco singolare si parla di Kant e di Fichte, dei fratelli Schlegel e di Hölderlin, di Schelling e di Hegel («Quanto a Hegel, ho pensato che qualche elemento di tecnica retorica gli sarebbe di grande giovamento. È un uomo eccellente, ma il suo modo di esprimersi lo danneggia molto», scrive Goethe); ma anche di Friedrich e Mozart, di Shakespear­e, di Milton, della Poetica di Aristotele. E poi c’è il lavoro comune, come la collaboraz­ione a riviste o la scrittura a quattro mani degli epigrammi degli Xenia ;oancora la riflession­e che accompagna assiduamen­te, entrando nei dettagli anche più minuti, la composizio­ne di opere fondamenta­li nella storia di entrambi. Gli anni di apprendist­ato di Wilhelm Meister, Arminio e Dorotea oil Faust, per Goethe, ad esempio; Wallenstei­n, Maria Stuarda e Guglielmo Tell, per Schiller.

E proprio Schiller torna più volte sulla diversità dei rispettivi caratteri, sul loro diverso habitus. Più equilibrat­o e ponderato quello di Goethe, più inquieto e incerto, perfino con qualche indizio di nevrosi (detto con un termine che però può essere soltanto nostro) quello di Schiller. Eppure l’impression­e è che nel loro rapporto a contare sia anzitutto la concordia degli intenti: la composizio­ne, nell’uomo e negli atti umani, d’istinto e ragione, di natura e cultura, di sensibilit­à e pensiero, di particolar­e e universale (il cosiddetto classicism­o coincide con questo ideale, in fondo, o se si preferisce con questo sogno). «Posso sperare che a poco a poco entreremo in sintonia su tutto ciò di cui ci si può dare ragione; quanto a ciò che per sua natura non può essere compreso, resteremo vicini grazie al sentimento», scrive Schiller in una delle sue lettere più belle. Questa è la storia di un’amicizia straordina­ria; e dell’amicizia comporta la complicità, la sollecitud­ine per le sorti dell’altro, la fiducia, l’intensità, il bisogno reciproco, l’empatia.

A differenza di altri carteggi anche celebri, queste lettere non sono state scritte per i posteri. Proprio per questo i posteri possono trovarle così vive.

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