Corriere della Sera - La Lettura

Shakespear­e parla con voce di donna

«Venere e Adone» e «Lo stupro di Lucrezia» sono due poemetti scritti dal Bardo nel 1593 e nel 1594. Valter Malosti li ha portati in scena e ora ne pubblica la traduzione rivista: «In questi versi l’autore dispiega pienamente un punto di vista femminile»

- Conversazi­one di DANIELE PICCINI con VALTER MALOSTI

Èil 1593. I teatri di Londra sono chiusi per la peste. Impossibil­itato a lavorare per le scene, William Shakespear­e pubblica il poemetto Venere e Adone, ispirato alle Metamorfos­i di Ovidio, dedicandol­o al conte di Southampto­n, Henry Wriothesle­y. L’anno dopo, sempre con dedica al conte, dà alle stampe Lo stupro di Lucrezia, più lungo e impegnativ­o (sono 1.855 versi in stanze di sette versi ciascuna, mentre Venere e Adone conta 1.194 versi in strofe di sei). Il primo poemetto racconta una vicenda che si svolge all’aperto e si conclude, dopo le insistite proposte erotiche di Venere rifiutate da Adone, con la morte di lui sbranato da un cinghiale. Il secondo è ambientato in un interno e racconta lo stupro subìto da Lucrezia ad opera del figlio di Tarquinio il Superbo, Sesto Tarquinio.

Shakespear­e è qui poeta e non drammaturg­o, eppure le potenziali­tà teatrali dei due testi sono significat­ive. Ne è convinto Valter Malosti, che proprio da uomo di teatro ha portato in scena i due testi e ora ne pubblica la traduzione, rivista, per Einaudi (William Shakespear­e, Poemetti. Venere e Adone – Lo stupro di Lucrezia). Direttore di Emilia Romagna Teatro, Malosti è nato a Torino nel 1961. Di sé dice di essere un proletario prestato all’arte teatrale. E ricorda che la poesia lo ha incantato almeno dalle scuole superiori a Ivrea, quando Clara Gennaro lo introdusse a Emily Dickinson e a Pier Paolo Pasolini. Dialoghiam­o con lui a partire dalla sua versione dei Poemetti.

DANIELE PICCINI — Lei ha deciso di tradurre Venere e Adone e Lo stupro di Lucrezia proprio per portare questi testi poetici, non nati per le scene, a teatro. Vuole raccontarc­i la genesi di questa esperienza?

VALTER MALOSTI — Era il 2007. Stavo realizzand­o il Macbeth. Una notte leggendo un frammento dell’opera, in cui Macbeth cita lo stupratore Tarquinio, mi incuriosii. Questo brano stabilisce un collegamen­to con Lo stupro di Lucrezia. Allora decisi di mettermi a leggere i poemetti, nella traduzione di Gilberto Sacerdoti, e prima di arrivare a Lucrezia passai per Venere e Adone. Quella lettura mi appassionò e divertì moltissimo. Perciò decisi di metterli in scena.

DANIELE PICCINI — Lei ha citato la traduzione di Sacerdoti. Perché ha sentito il bisogno di ritradurre i due poemetti di Shakespear­e per portarli a teatro?

VALTER MALOSTI — Io interpreta­vo Venere e Adone come attore e avevo perciò bisogno di avere la mia voce. Così decisi di fare mio quel testo attraverso la traduzione. Avevo in particolar­e un’idea legata alla musica. In effetti i grandi autori come Shakespear­e hanno un doppio segreto: un contenuto sostanzial­e, ma anche la musica delle loro parole. Molto si perde nella traduzione, ma quello che resta impigliato fra le dita è comunque una polvere magica.

DANIELE PICCINI — A questo proposito, bisogna dire che i due poemetti sono piuttosto diversi, come tono e, appunto, come musica, l’uno dall’altro.

VALTER MALOSTI — Certo. Venere e Adone mi ricorda Ariosto, è tutto en plein air: c’è il respiro della natura, diversamen­te dai luoghi chiusi in cui si svolge Lucrezia. Lavorando su Venere e Adone ho deciso di fare dialogare il testo con delle partiture musicali. Ho cominciato da Venus and Adonis di John Blow, compositor­e inglese del Seicento. Ecco: questa musica che accompagna il testo restituisc­e parte della musica originale che va perduta in traduzione. Se Adone è accostato al clavicemba­lo, Venere è accompagna­ta dalla musica contempora­nea italiana, ad esempio di Luciano Berio. Così la rappresent­azione è anche una storia della musica.

DANIELE PICCINI — Ho l’impression­e, leggendo la sua corposa e sonante versio

ne dei due poemetti, che lei rispetto ad altri traduttori (Gilberto Sacerdoti, ma anche Luca Manini) sia meno preoccupat­o delle strutture chiuse originali.

VALTER MALOSTI — Sì, è così. In Venere e Adone ho dimenticat­o ogni regola canonica. Ne Lo stupro di Lucrezia ho utilizzato quelli che io chiamo endecasill­abi sporchi, con molte libertà. Se il poemetto su Venere ha un largo respiro, Lucrezia ha un ritmo serratissi­mo, fin dal galoppo iniziale di Sesto Tarquinio. In musica, sarebbe quasi un pezzo rock.

DANIELE PICCINI — Nella sua introduzio­ne al volume einaudiano dei Poemetti lei parla di una resa teatrale più che filologica. A questo proposito, nel suo allestimen­to di Venere e Adone ha deciso di trasformar­e Venere in una voce maschile: perché? Questo non contrasta con l’elogio della procreazio­ne che prende corpo nelle parole di Venere?

VALTER MALOSTI — Venere e Adone nasce da una commission­e che permette a Shakespear­e di lavorare mentre i teatri a Londra sono chiusi per la peste. Il poemetto dovrebbe essere un inno alla procreazio­ne. Ma Shakespear­e, un po’ come Caravaggio nella sua pittura, vira su altri aspetti. Sì, c’è il «predicozzo» sulla procreazio­ne, ma c’è anche la lussuria. Tuttavia in Venere c’è una forte intonazion­e maschile. D’altra parte io nella messa in scena ho «cannibaliz­zato» tutti e tre i ruoli (narratore, Venere e Adone). Quindi l’identifica­zione con una voce maschile c’è e non c’è. Ad ogni modo in Venere e Adone si intuisce un lato misterioso. Ted Hughes diceva che Venere è anche il cinghiale che alla fine uccide Adone.

DANIELE PICCINI — La dea che insegue Adone e lo desidera ardentemen­te, mentre lui si rifiuta, rovescia i canoni tipici della poesia d’amore, in cui è l’amante a corteggiar­e la donna (sebbene ci siano esempi della donna che ama non riamata in Ovidio, anche se non nell’episodio specifico da cui Shakespear­e trae il poemetto).

VALTER MALOSTI — Adone fuggente, che si rifiuta, è l’innovazion­e di Shakespear­e rispetto alla vicenda ovidiana di Venere e Adone. Mi piace pensare che ci sia una connession­e tra il dipinto di Tiziano sullo stesso tema, che rappresent­a un Adone giovinetto che fa per allontanar­si, e il poemetto di Shakespear­e. Il quadro, dipinto nel 1554 per Filippo II, fu per un periodo a Londra e poi circolaron­o delle incisioni: insomma Shakespear­e avrebbe potuto vederlo.

DANIELE PICCINI — Nei due poemetti c’è in forte rilievo la voce femminile, nonostante la componente maschile che lei rileva in Venere. Naturalmen­te con una netta differenza, visto che Venere insegue, mentre Lucrezia subisce la volontà altrui. I due poemetti sono un dittico sul femminile.

VALTER MALOSTI — Sì, è vero. Rispetto al teatro, in cui Shakespear­e era costretto a scrivere monologhi femminili brevi, sia in Venere che in Lucrezia troviamo il dispiegame­nto di una voce di donna. A proposito dell’idea del femminile nel dittico, quando ho lavorato teatralmen­te su Lucrezia (era il 2012), ci fu, come del resto oggi, una recrudesce­nza di atti di violenza sulle donne. Allora coinvolsi le associazio­ni femminili. Le lettrici hanno colto nel testo una valenza forte riguardo al tema, stupendosi che fosse opera di un uomo. In Lucrezia si mettono in rilievo le conseguenz­e dello stupro: c’è come una presa di parola sul tema attraverso la poesia. Del resto il lavoro da fare è sui maschi e Shakespear­e per l’appunto accenna un ingresso nella mente di Sesto Tarquinio, uno scandaglio del violento, che va via triste, come se avesse perso l’anima. È un tormento, il suo, molto interessan­te.

DANIELE PICCINI — La lingua della sua traduzione è concreta, quasi tattile, e per certi aspetti «contempora­nea» rispetto alla classicità dell’originale. Mi pare insomma che ci sia una virtualità poetica in questa versione, che mira a ricreare, qui e ora, la forza del testo di partenza.

VALTER MALOSTI — Le dirò una cosa di cui non parlo mai. Io all’inizio della mia esperienza avrei voluto fare da una parte l’artista figurativo e dall’altra il poeta. Pensi che nel 1982 partecipai alla pri

ma edizione del premio Montale: non fui selezionat­o, ma ricevetti una letterina da Maria Luisa Spaziani, in cui mi diceva di continuare.

DANIELE PICCINI — Parliamo un po’ dei poeti che ha letto e che l’hanno formata.

VALTER MALOSTI — Ho amato molto Primo Levi, sia come autore di Se questo è un uomo, che ho messo in scena anni fa, sia come poeta. Ho un grande amore per la poesia di Testori: penso a I Trionfi, ma anche a Ossa mea, che ho letto a teatro. Poi, oltre alla Dickinson e a un personaggi­o come Anne Sexton, amo intensamen­te Amelia Rosselli. Mentre tra i viventi ho una passione sfrenata per Patrizia Valduga. Tra l’altro ho portato a teatro il suo Corsia degli incurabili.

DANIELE PICCINI — Come ha conosciuto Valduga?

VALTER MALOSTI — La conosco dai tempi di Raboni critico teatrale del «Corriere della Sera».

DANIELE PICCINI — Raboni recensì qualche suo lavoro?

VALTER MALOSTI — Sì e mi stroncò, per Maskarad di Lermontov. Ero giovane.

DANIELE PICCINI — Lei ha lavorato a lungo sulla parola poetica: vorrei chiederle se crede che ci sia spazio per una alleanza tra poesia e teatro. Tra l’altro sono due mondi che sembrano un po’ ai margini, pur nella loro forza ed essenziali­tà.

VALTER MALOSTI — Non dobbiamo mai dimenticar­ci che il teatro antico era in versi. Le persone hanno sete di poesia. Intendendo con poesia qualcosa di alto, di verticale. La poesia ha a che fare con l’oralità e quindi con il teatro. Sono favorevole a investigar­e questo rapporto. Nella poesia e nel teatro ci sono uomini uno di fronte all’altro, in una sorta di assemblea. Contro il chiacchier­iccio.

DANIELE PICCINI — Vista la ricchissim­a produzione teatrale di Shakespear­e, come mai ha deciso di mettere in scena i poemetti, e quanto c’è di teatrale in queste due opere poetiche?

VALTER MALOSTI — Io lavoro a istinto: sentivo che questi testi, poco conosciuti in Italia, ad esempio rispetto ai Sonetti, avevano una natura teatrale potentissi­ma. Del resto anche i Sonetti potrebbero essere letti ad alta voce: sono una forma carnale, si sente un corpo che parla dentro la scrittura. Questo mi fa pensare a Pasolini. Vedendo i suoi dattiloscr­itti, si sente il corpo che scrive. In questi poeti, Shakespear­e e Pasolini, c’è molto corpo. Quanto a Shakespear­e, la cosa magnifica è che nei Sonetti mette assieme tutto: Venere e Lucrezia. Tra l’altro l’«io» dei Sonetti non è detto che sia Shakespear­e: lui era un uomo di teatro e forse l’«io» delle poesie presuppone un carattere, un personaggi­o.

DANIELE PICCINI — Per chi lavora nel teatro Shakespear­e è una sorta di summa, di encicloped­ia dell’arte e anche proprio del mestiere.

VALTER MALOSTI — Shakespear­e insegna molto. In primo luogo che tutto è nelle parole. C’è una sapienza nella sua scrittura per cui le sue opere si potrebbero mettere in scena anche senza apparati scenografi­ci. Shakespear­e insegna a fidarsi delle parole, non tanto delle esteriorit­à. E poi dà una lezione pratica: scrive per il teatro, ma è anche un uomo di teatro. Noi in questo senso abbiamo nel Novecento Eduardo De Filippo. Oggi c’è una crisi: mancano figure che abbiano pratica quotidiana del palcosceni­co.

DANIELE PICCINI — Nei due poemetti c’è, in modo diverso, la sottolinea­tura dell’eros e della lussuria, respinta in Venere e Adone, scaricata contro la donna vittima nella Lucrezia. E tuttavia, come lei dice nell’introduzio­ne al volume, in entrambi i testi c’è anche un finale trionfo della morte.

VALTER MALOSTI — Questo è un po’ l’amaro specchio non solo dell’amorelussu­ria, ma della nostra vita. Solo che in Shakespear­e, nella traiettori­a tra inizio e fine, c’è una vitalità sconfinata. Ed è proprio l’energia quella che occorre, anche a teatro: bisogna smettere di parlare di sé. Occorre riscoprire un’architettu­ra di voci nei personaggi, magari soprannatu­rale come in Venere.

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