Corriere della Sera - La Lettura
Normandia triste, solitaria e fuori stagione
Tratteggia l’amicizia (silenziosa) tra due emarginati della società
Per quanto ci si possa girare attorno nella vita «quel che gli uomini si dicono si riduce a poche parole», si legge in Una scimmia in inverno, (Settecolori edizioni), il formidabile romanzo di Antoine Blondin che si svolge sui campi della disperazione e dell’inquietudine. Quella di Fouquet, un giovane che si ritrova a Tigerville, in una Normandia solitaria e completamente fuori stagione, un paese da studiare con le cartine topografiche. Lui è come una scimmia in inverno, di quelle che in Oriente ogni tanto fanno capolino nelle strade e nessuno sa bene come mai siano lì. Lì — per Blondin –— è in un albergo, senza clienti, gestito da Quentin, un passato da militare in Cina, uomo che ha 60 anni e una moglie che lo ama: Suzanne, che non è «una bellezza ma possiede la nobiltà che dà il dominio delle cose». A differenza di quella di Fouquet, che lo ha lasciato nella vaghezza precisa del dolore e nel rapporto con una figlia che è stata sistemata in un collegio.
È in questo «sentimento un po’ più crudele dell’assurdità dell’esistenza» che Blondin porta avanti una storia al limite perché «non ci sono che i milionari e i vagabondi che possono rompere così brutalmente col proprio domani». E in questo oggi dei protagonisti — che Blondin racconta con uno stile secco e preciso, implacabile nell’efficace traduzione di Vittorio Viarengo — la tregua arriva sotto forma di alcool: il demone, la via di fuga che porta alla contemplazione e a volte anche alla violenza. In questa franare lentamente si impasta l’amicizia tra Fouquet e Quentin, che per anni non aveva più toccato un bicchiere di alcool e aveva evitato le osterie. In questa discesa all’inferno — in questa disperato tentativo di risalire — i due uomini si dicono poco, c’è poco da dire se non lasciare le parole da una parte per scomporre la vita in prove di coraggio e follia, come la «corrida» con giacche come muletas a evitare le auto di passaggio.
Ebbrezza o dannazione sembrano essere le maniche di un vestito che Blondin cuce sì addosso ai personaggi ma che lui per primo, come uomo, ha indossato nella sua vita privata. In Francia il regista Henri Verneuil ne ha fatto un film con JeanPaul Belmondo e Jean Gabin. A testimonianza che lo scrittore era amato e seguito nella sua patria, dove aveva fondato il movimento degli Ussari con Roger Nimier e Michél Deon, nato in antitesi con quello degli esistenzialisti. Anche se — lo si legge nella prefazione firmata da Massimo Raffaeli — Blondin «fu un uomo generoso e in tutto straordinario, un testimone del suo tempo e persino (suo malgrado o forse a sua insaputa) un autentico scrittore esistenzialista». Nel tratteggiare questo autore così fondamentale — lo fa col solito piglio efficace Stenio Solinas che firma la postfazione intitolata «Il diavolo nella bottiglia» — si ha la sensazione di avere tra le mani un romanzo di quelli destinati a restare nella vita di qualsiasi lettore. E la certezza che Blondin dovrebbe essere più conosciuto e più pubblicato in Italia (come ha deciso di fare Settecolori dando alle stampe questo testo).