Corriere della Sera - La Lettura
Una protagonista (che sono due) controlla il male
Agonia e sadomasochismo nel riuscito esordio di trama doppia ma coerente
Senza respiro di Raffaella Mottana (pubblicato da Accento) è un ottimo libro d’esordio. Il lettore si trova davanti un romanzo atipico nel panorama italiano, che elegge una narrazione disarmonica e non conclusa. La trama di Senza respiro vive di due movimenti, distinti e antitetici: nella prima parte si racconta l’esperienza di morte e lutto vissuta da Cecilia, la giovane protagonista, che perde la madre stroncata da un tumore, mentre nella seconda troviamo le peripezie di Cecilia, inizialmente incuriosita, e poi perfettamente a suo agio nel mondo del sadomasochismo (Bdsm). Due realtà non collimanti in nulla, che fanno sentire il lettore spaesato, se non fosse per il prologo, che anticipa «come è finita la storia», trasformando Senza respiro in un’unica analessi, la narrazione appunto del pregresso.
Il romanzo di Mottana trova la sua forza in quest’asimmetria, tanto che viene da immaginarne le pagine come un chirale: una forma che nello specchiarsi non riesce a coincidere completamente. La figura della protagonista tra prima e seconda parte subisce una torsione tale da farcela sentire uguale eppure completamente diversa: si avverte un senso di sproporzione tra la Cecilia 1 e Cecilia 2. Come è possibile che la ragazza amorevole, dolce, che voleva fare il corso di fotografia, sia la stessa persona che accetta e «gioca» certe situazioni di sottomissione?
Per rispondere a questa domanda si potrebbero leggere con attenzione alcuni brani, tratti da entrambe le sezioni del romanzo. In Morte abbiamo il resoconto misurato della morte della madre, scandito da un conto alla rovescia, numeri che descrivono il diminuire dei respiri della madre (come non pensare alla figura di Zeno ne La morte di mio padre), ma non c’è nessuna ricerca di artificio, o di liricità o di lacrima facile, i cliché più triti di una certa narrativa sul cancro non vengono presi in considerazione: non ci sono eroine, guerriere, non c’è amore che salvi, il tutto è narrato con economia e sobrietà. Il malato, che muore, viene mostrato nella sua estraneità; esso non ha nulla a che vedere con ciò che era quando era sano. La madre di Cecilia diviene così perturbante da tenerci lontani, una visione che ci spaventa perché ci porta alle soglie della sua inumanità: il malato che muore non è più una creatura, ma «cosa» che smette, qualcosa che ricorda vagamente qualcuno che da tempo non c’è più: «Quella cosa butta fuori aria finché il petto non si abbassa del tutto e il corpo resta immobile come una tavola» (pagina 62). Ogni momento dell’agonia della madre di Cecilia è registrato, ma non è mai presente il sentimento della protagonista: esso è affidato per sottrazione è ciò che accade, alle persone che si muovono intorno.
Questo controllo della lingua, del linguaggio, questo suo essere cristallizzato davanti all’indicibile e allo smisurato, è ciò che ritroviamo nelle vicende raccontate nel capitolo intitolato Gioco, dove le scelte stilistiche non attengono più la morte, ma ad alcune pratiche sadomasochistiche: «La carne viene schiacciata, Cecilia fa respiri profondi, trattiene il fiato quando la pressione si dolorosa. Tommaso solleva l’altro scarpone, lo appoggia alla coscia ancora intonsa. Tutto si svolge come prima: la suola morde, il dolore cresce, il respiro si blocca» (pagina 156). Questi due brani apparentemente lontani risuonano e si collegano nella metafora della cosa/madre simile a un tappetino da mare che i ragazzi sgonfiano calpestandolo. Questi legami interni di parole e immagini — assenza di fiato, morte, la sofferenza, la cosalità delle persone — sono il tessuto concreto della storia di Senza respiro.
L’autrice vuole raccontare il tentativo della protagonista di avere il controllo sul male, il dolore e la sofferenza, ma, narrandoci il suo fallimento (perché il potere enorme della morte e quello terribile dell’amore nulla hanno a che fare con la logica sterile degli ospedali o dei setting ipercontrollati del Bdsm), ci consegna il ritratto di una creaturalità gracile come quella di «un merlo morto».