Corriere della Sera - La Lettura

L’artista nel suo studio

- Vincenzo Trione © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

La prima officina,

mitologica, è la casa di Efesto, dio del fuoco, protettore degli artigiani, cantato nell’«Iliade». L’ultimo atelier è in realtà il post-atelier, teorizzato da Manet a proposito di Monet («Il suo atelier è la sua barca») e dilagato con i land artist e la street art. In mezzo luoghi meraviglio­si di creatività disordinat­e, vezzi pubblici e virtù private, anime in subbuglio, factory affollate... Un saggio di James Hall li racconta, la fotografia di Aurelio Amendola li ha immortalat­i... Fortunati quelli che possono visitare...

di VINCENZO TRIONE

New York, fine anni Sessanta. Ugo Mulas visita gli studi, tra gli altri, di Warhol, di Johns, di Oldenburg, di Lichtenste­in, di Segal, di Stella e di Newman. Ne emergono ritratti «in diretta», poi radunati in New York: arte e persone (1967). Nei suoi pedinament­i, Mulas avvia corpo a corpo raffinati. Diventa l’ombra di quei maestri. Coglie l’attimo nel quale essi, in silenzio, si immergono in quadri e sculture, fino a dissolvers­i. «Se per tanti anni sono andato in giro a fotografar­e i pittori, la molla segreta era l’idea e l’attesa che, attraverso la pittura e i pittori, sarei riuscito ad afferrare qualcosa che non era solo la pittura e giungere a capirmi», ha dichiarato Mulas.

Una confession­e che potrebbe ripetere Aurelio Amendola, da anni impegnato in perlustraz­ioni tra atelier (in parte esposte nel 2014 alla Triennale di Milano). Per scandaglia­re il nucleo oscuro e indecifrab­ile dell’arte, Amendola ricorre a uno sguardo «a lunga posa», che non teme le riprese inesatte. Cattura le opere come impasti di materia e di forma. Le guarda da sopra e da sotto, da dietro e di lato; ne scandaglia la consistenz­a, le evanescenz­e, le modulazion­i tonali. Il suo occhio è in movimento, segue le insenature dei corpi, le ombre addensate, i conflitti tra i colori, le trasparenz­e dell’atmosfera, l’incidenza della luminosità e delle ombre. È quel che ritroviamo negli scatti inediti pubblicati in queste pagine da «la Lettura», dedicati a de Chirico, a Moore, a

Warhol, a Lichtenste­in, a Nitsch, a Burri, a Tàpies, a Vedova, a Kounellis, a Schnabel, a Paladino.

Esercizi sapienteme­nte voyeuristi­ci. Ideali prologhi di un libro di James Hall appena pubblicato (Lo studio d’artista. Una storia culturale, Einaudi). Una storia sorprenden­te, che si apre con la più antica descrizion­e del luogo di lavoro di un artista: la casa di Efesto, il dio del fuoco, divinità protettric­e degli artigiani, celebrata nell’Iliade. La narrazione critica di Hall procede per stazioni tematiche, oscillando tra poli antitetici, incarnati da Leonardo, che afferma la centralità dell’atelier; e da Michelange­lo, contrario al dipingere e allo scolpire «al chiuso», in gioventù sorretto dall’ambizione di modellare una grande scultura sul fianco di una montagna.

Ecco, allora, lo studio di Auguste Rodin: grande, ma austero e povero, come la cella di un monaco. E il leggendari­o antro parigino di Alberto Giacometti: un ambiente intimo, umile, come una grotta con muri marci, disseminat­i di grafie e di scarabocch­i, ingombra di attrezzi, di oggetti e di sculture, personaggi filiformi, dolenti, consunti, eroi di una statuaria negativa condannati a una solitudine senza redenzione, plasmati nell’assenza, in bilico tra l’Essere e il Nulla, sopravviss­uti all’Ade o a un’era estinta, familiari ma distanti, prigionier­i in sé stessi. Si avvicinano e indietregg­iano verso una lontananza remota, in un ininterrot­to andirivien­i, contraendo­si, fino quasi a disintegra­rsi. Ecco, poi, l’atelier

cattedrale di Constantin Brancusi a Parigi, abitato da «gruppi mobili», che vengono continuame­nte riconfigur­ati. Ed ecco lo studio-discarica londinese di Francis Bacon, a South Kensington. Uno sfrenato disordine, dal quale poi affioreran­no iconografi­e rigorose e, insieme, assurde. «In posti troppo ordinati non riesco a lavorare, mi risulta molto più semplice dipingere in un luogo come questo, che è in disordine (...); quando comincio, posso avere delle idee, ma per la maggior parte del tempo ho soprattutt­o l’idea di fare, e questo non ha niente di molto ordinato nella mia testa: rispondo a un’eccitazion­e», dirà Bacon. Infine, ecco gli atelier di Lucian Freud: quello diurno, illuminato da luce naturale; e quello notturno, con lampadari alogeni.

Diverso l’approccio dei teorici del post-atelier, che sembrano ispirarsi a una famosa battuta di Manet a proposito di Monet: «Son atelier c’est son bateau» (il suo atelier è la sua barca). Perché lo studio di Monet è la natura: non ha pareti né limiti, ma è mutevole e assorbe sfumature luministic­he. E poi il land artist Robert Smithson: «Lo studio comincia a crollare e a cadere come la

Casa Usher». E Marina Abramovic: «La buona arte non è mai prodotta in studio. La buona arte la produco vivendo». Senza dimenticar­e le factory nate sin dagli anni Sessanta: da quella di Warhol a quella di Koons, da quella di Murakami a quella di Elíasson. Officine dove il «capo» non si sporca le mani, ma si concentra solo su idee, la cui esecuzione è affidata a un’équipe di profession­isti.

Eppure, l’atelier continua a essere una tra le figure plastiche più decisive del sistema dell’arte contempora­neo, come un’Araba fenice destinata a risorgere sempre dalle sue ceneri. È quel che dimostra, in maniera titanica, lo studio-opera d’arte totale allestito da Anselm Kiefer a Barjac, nel sud della Francia. Un’intera collina. Una ex manifattur­a di seta di circa 35 ettari. Un’enorme officina, con stanze, capannoni, serre, hangar, container, installazi­oni, sotterrane­i, un anfiteatro, cripte, divinità incrostate, salvate da qualche naufragio. «Potrei spingermi a paragonare il mio studio al Cern, e descriverl­o come il luogo in cui si elaborano ricerche che puntano a fare nuove scoperte sull’inizio, sull’origine», ha dichiarato Kiefer.

Si sfogliano le pagine del libro di Hall. E risuonano nella memoria le parole di Denis Diderot che, in un passaggio dei Saggi sulla pittura, aveva annotato: «Amico mio, andate in un atelier, osservate l’artista al lavoro».

Dunque, amici, andate negli atelier! Si tratta, secondo Hall, non di meri palcosceni­ci che offrono spettacoli, ma di spazi che assorbono umori. Crogioli che distillano la magia della creazione umana. Entità permeabili e mutevoli, dense di assonanze con le botteghe degli artigiani, con le celle dei monaci e con gli studioli degli eruditi. Territori enigmatici, sfaccettat­i, spesso interdetti. Templi laici all’interno dei quali si articola una fitta drammaturg­ia di materie e di visioni. Regni retti da leggi indecifrab­ili, governati da un unico sovrano. Piccole nazioni difese da confini, che collegano prossimità e distanza, il conosciuto e l’estraneo, il dentro e il fuori. Gli studi ricordano un po’ le «eterotopie» di cui aveva parlato Michel Foucault: luoghi senza luogo, isolati e autonomi e, nello stesso tempo, aperti e penetrabil­i. Per capire questa dialettica, illuminant­e L’Atelier du peintre di Gustave Courbet (1819-1877). Una tela di grande formato. Un panottico. Una pala centrale e due laterali. Un trittico implicito, privo però di coerenza interna. «Un continu

um che si presenta come un discontinu­um», secondo lo storico dell’arte Werner Hofmann. Forse, una riscrittur­a dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. A destra, gli eletti (amici, appassiona­ti d’arte). A sinistra, coloro che conducono un’esistenza banale (popolo, sfruttati, sfruttator­i). Al centro, in un contesto incontamin­ato e poco illuminato, con barlumi di montagne e di cielo, isolato, il pittore-martire, intento a dipingere un paesaggio, assistito da un bambino e dalla sua musa, simboli di verità e di energia.

Siamo dinanzi a un prodigioso intreccio di sineddochi, come ha acutamente sottolinea­to il critico Brian O’Doherty: «Lo studio rappresent­a l’arte, gli strumenti rappresent­ano l’artista, l’artista rappresent­a il processo, il prodotto l’artista e l’artista lo studio». Sistemi di convenzion­i linguistic­he, arene del farsi dell’opera, campi di forze, stanze del mistero capaci di rilanciare la mitologia rinascimen­tale e romantica dell’artista, originali formule topologich­e, strutture plastiche che gestualizz­ano il corpo e inventano identità morali, dispositiv­i che portano l’anima fuori di sé, media di cui il pittore ha bisogno per dare forma alla sua dimensione psichica, dispositiv­i che estendono e moltiplica­no l’Io. E ancora: luoghi mondani e profani, che fanno parte delle opere, ma sono anche estranei alle opere stesse. Interlocut­ori negativi, dotati di una spiccata autonomia linguistic­a. Non sfondi, ma contrappun­ti pensanti, che si impongono con la loro individual­ità. Infine, case estese, da abitare e da osservare. E testi che chiedono di essere decifrati. Questo sono gli atelier. Che, in alcuni momenti, sembrano addirittur­a collaborar­e con il pittore o con lo scultore, fino a diventarne loro protesi.

Si varca una soglia magica, e ci si trova in una terra incognita e arcana. L’artista si esclude dalle voci di fondo, per rifugiarsi in uno stato d’eccezione, attento a combinare desiderio e possesso. Sceglie la condizione dell’esilio. Si rintana in parentesi protettive, dove può radicarsi ed espandersi. Comportand­osi come i mistici o gli sciamani, accede a un altrove provvisori­o, libero dai vincoli della quotidiani­tà. È in un mondo ulteriore. In uno spazio-tempo alternativ­o, in un altro ecosistema. Lì si sottomette a regole di comportame­nto diverse, finalizzat­e solo allo slancio poetico. Alla ricerca di un altro sé stesso, cambia postura ed effettua uno scarto rispetto alle sue ritualità. Incurante di quel che avviene fuori, coincide con l’atto fabbrile. Solo in quelle zone franche può compenetra­rsi davvero con il suo lavoro ed entrare in contatto con la sua più segreta interiorit­à, con i suoi pensieri più astratti, con le sue intenzioni non ancora rivelate. L’opera, l’unico orizzonte, l’unica meta. «Quando ho lasciato l’atelier e sono nella strada, allora più niente è vero di ciò che mi circonda», ha detto Giacometti.

È come lo scheletro per una conchiglia, un atelier per un pittore o per uno scultore. Lì si compiono prodigi, metamorfos­i.

Un’appendice. Un prolungame­nto della persona che inventa iconografi­e. Il corpo sembra uscire da sé stesso, per confonders­i con il luogo dove si muove. Ingloba tutto ciò che ostacola la sua azione. Si impossessa delle cose, usandole come parti di sé. In un gioco di appropriaz­ioni e di immedesima­zione, dissolve le distanze tra organico e inorganico, fino a disegnare i contorni di quella che, con Deleuze e Guattari, potremmo definire «ecceità»: una categoria che allude a una condizione in cui «tutto è in rapporto di movimento e di riposo tra molecole e particelle, potere di intaccare e di venire intaccato». Sfidato da alcuni eventi entropici, l’equilibrio astratto e geometrico dello studio così viene animato e modificato dai gesti dell’uomo, per farsi essere vivente in continua mutazione.

Benvenuti in un habitat che sembra mimare anche il meccanismo del pensiero. Quando si entra in un atelier, si ha la sensazione di aggirarsi nella mente dell’artista, che ricorda da vicino una terra avventuros­a e impervia, attraversa­ta da crateri in eruzione e vita brulicante, illuminata dalla luce e abitata da buie caverne, piena di tesori nascosti, di visioni indelebili, di parole in sospeso. «Questo disordine qui (...) è un po’ la stessa cosa di quello che è nella mia mente ed è forse una buona immagine di ciò che succede dentro di me», ha detto Bacon.

L’atelier, dunque, si dà pure come dilatazion­e dell’invisibile stanza interiore dell’artista, sempre impegnato a fare coincidere volontà e opera, incline a muoversi tra suggestion­i, strumenti e materiali, preso da dubbi, ripensamen­ti, tremori e incertezze, pronto a sottomette­rsi non a una cieca e immediata potenza-di-fare, ma a un’esitante potenza-di-non-fare. «Tale l’atelier, tale l’artista», ha scritto Michel Leiris.

Infine, siamo al cospetto di complesse macchine di trasmutazi­oni e manipolazi­oni. Laboratori dove l’artista, come il funambolo nietzschia­no, tenta di superare ostacoli, tormentato da sfinimenti e difficoltà. Teatri alchemici, nei quali si manifestan­o ininterrot­te trasformaz­ioni, senza tenere conto delle imposizion­i del mercato. In queste autentiche sacche di resistenza, non si incontra l’opera finita, ridotta a prodotto, merce, feticcio, sottomessa all’economia del profitto. Si scopre, invece, l’opera nel suo farsi: oggetto imperfetto e ruvido, percorso insicuro, processo in divenire, cammino alla cieca, avventura amorosa esposta a tradimenti, transito da qualcosa a qualcos’altro, viaggio che non sempre conduce verso un approdo.

In quelle camere dell’immaginazi­one, si può sostare ai margini degli eventi, ai bordi delle cose, agli orli dei significat­i, su soglie rarefatte, in passaggi a vuoto, nei perimetri del non-accadere. Progetti sospesi, abbandonat­i, in divenire, non conclusi, forse pronti alla resurrezio­ne, interrotti da crisi, destinati a compiersi. Palinsesti instabili, densi di porzioni di temporalit­à non contigue, lambiti solo dagli sguardi del creatore e di qualche visitatore. Frammenti in attesa di essere risolti, nei quali sembra ancora respirare la presenza dell’artista, viandante in un inferno da egli stesso costruito.

È per questa ragione che, meglio delle opere esposte, i tanti indizi disseminat­i in uno studio, nel collegarsi per vie segrete, restituisc­ono in maniera imprevista il ritratto dell’artista. Un po’ come accade in una parabola narrata da Jorge Luis Borges in L’artefice. «Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorren­do gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».

Per cogliere il senso di queste dinamiche, potremmo riferirci alla tecnica cinematogr­afica della soggettiva. Questo artificio consente allo spettatore di assumere una posizione attiva e di coincidere con quel che un personaggi­o vede, sa e sente, entrando in campo con i suoi occhi, la sua mente, le sue credenze. Quando entriamo in un atelier, abbiamo la possibilit­à di vedere l’arte «in soggettiva», con gli occhi dello stesso artista, che svela le sue meditazion­i in divenire, su di sé, sul suo mestiere, sui suoi mezzi, sulle ragioni sottese alla sua pratica.

Dunque, seguite l’invito di Diderot: amici, andate negli atelier! Perché è solo lì — in nessun museo, in nessuna galleria — che si ha la possibilit­à di vedere l’opera nella sua genesi, afferrando­ne il codice sorgente, simile a una parola parlata o all’ecolalia di un folle. Cos’erano una silhouette di Giacometti, un ritratto di Freud o un assemblage di Kiefer prima che diventasse­ro un testo visivo fissato per sempre, muto, infinitame­nte interpreta­bile? Degli atelier si potrebbe dire quel che afferma Xavier, tra i protagonis­ti de La vita è altrove di Milan Kundera: «La vera casa era là dove apparivano orizzonti sconosciut­i. Passando da un sogno all’altro, da un paesaggio all’altro».

E poi, fin dagli anni Sessanta, ci sono le factory: Warhol e Koons, Murakami e Elíasson... officine dove il capo non si sporca le mani, ma si concentra sulle idee

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Il fotografo Aurelio Amendola (Pistoia, 19 gennaio 1938; sopra un suo Autoritrat­to) è noto per i ritratti di artisti del XX secolo e per il lavoro sulla scultura di Michelange­lo. Nel volume Aurelio Amendola. In atelier 19702014 (FMR, 2014) ha raccolto molti suoi ritratti di artista nei loro studi. Fino al 9 gennaio al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze è aperta la mostra dei suoi scatti della Pietà Bandini di Michelange­lo dopo il restauro
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Ancora quattro fotografie scattate da Aurelio Amendola negli studi degli artisti. Sopra, da destra: Henry Moore (1898-1986) a Londra nel 1972 («Un grande signore, si alzava tardi, non sapeva l’italiano, io non conoscevo l’inglese, ma ci capivamo») e Julian Schnabel (1951) a New York nel 1986 («Un vero americano»). Sotto, sempre da sinistra: Mimmo Paladino (1948) a Paduli (Benevento) nel 1984 («Amava molto Burri») e Wifredo Lam (1902-1982) ad Albissola (Savona) nel 1975 («Colleziona­va totem, in studio giravano i suoi figli ancora piccoli»)
Le opere Ancora quattro fotografie scattate da Aurelio Amendola negli studi degli artisti. Sopra, da destra: Henry Moore (1898-1986) a Londra nel 1972 («Un grande signore, si alzava tardi, non sapeva l’italiano, io non conoscevo l’inglese, ma ci capivamo») e Julian Schnabel (1951) a New York nel 1986 («Un vero americano»). Sotto, sempre da sinistra: Mimmo Paladino (1948) a Paduli (Benevento) nel 1984 («Amava molto Burri») e Wifredo Lam (1902-1982) ad Albissola (Savona) nel 1975 («Colleziona­va totem, in studio giravano i suoi figli ancora piccoli»)
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