Corriere della Sera - La Lettura
Ma oggi certi atelier sembrano ambulatori Kiefer
Quattro chiacchiere con il fotografo che ha ritratto tutti i giganti del Novecento. E anche Michelangelo
La forza di Aurelio Amendola sta nell’umiltà, in quell’umiltà che può sembrare un vezzo da toscano (o meglio da pistoiese) ma che gli ha permesso di fotografare come nessun altro i grandi dell’arte. «Sono più emozionato ora a raccontare — confessa a “la Lettura” — di quando ho fatto i ritratti». La stessa umiltà che lo ha necessariamente guidato quando ha fotografato il pulpito di Sant’Andrea di Giovanni Pisano o i capolavori di Michelangelo nelle Cappelle Medicee.
Quella allestita in cinquant’anni da Amendola («Come mi sento oggi? Da vecchierello»: compirà 85 anni a gennaio) è una galleria di ritratti dei più celebri maestri del Novecento, nata spesso dalla frequentazione personale con molti di loro — Pomodoro, Schifano, Manzù, Mitoraj, Ceroli, Vangi, Kounellis, Pistoletto, Parmiggiani... — in una scenografia privilegiata: gli studi.
Certo, trovarsi davanti a Warhol o a de Chirico non deve essere stato facile: «Tutto è cominciato quando ho fotografato Marino Marini; è stato lui che mi ha aperto la strada, è stato lui che, ad esempio, mi ha presentato Henry Moore — continua Amendola —. Con gli anni, i nomi di Marino, di Burri, del mio amico collezionista Giuliano Gori sono diventati il mio passpartout per entrare negli studi degli artisti». A chi ho voluto più bene? «A Burri, l’ho conosciuto al tempo delle Combustioni; con lui siamo diventati amici e lo siamo rimasti fino all’ultimo... ricordo il freddo del suo studio a Città di Castello, per fortuna ogni due o tre ore smetteva di lavorare per andare a vedere le partite di calcio in televisione». E aggiunge, quasi sorpreso: «Pensare che all’inizio mi aveva detto: “Venga a trovarmi, ma non pensi di fotografarmi”». Quello di Burri, come quello di Moore («Ci incontravamo solo per le fotografie: lui si alzava alle 11, io all’alba; e poi io non parlavo inglese») o come quello Wilfredo Lam («Un uomo alto, affascinante, già consapevole di essere una star») sono gli studi che Amendola ha amato di più fotografare: «Erano spazi bellissimi perché disordinati, pieni di confusione e di colore, dove si respirava creatività, oggi gli studi di artisti sembrano più ambulatori o studi di dentisti, troppo ordinati, troppo precisi»).
Nei ricordi di Amendola si confrontano vecchie e nuove generazioni: «Ho incontrato de Chirico nel 1973 a Venezia, era un uomo simpaticissimo e vanitosissimo, lo seguivo mentre dal suo albergo andava in piazza San Marco, gli piaceva tantissimo che le persone lo riconoscessero, gli piaceva scherzare». Racconta: «Non prendeva l’ascensore, quando scendeva le scale dell’albergo sembrava Wanda Osiris, certe mattine c’era persino l’orchestrina che gli suonava Carissimo Pinocchio come accompagnamento». La frequentazione con de Chirico proseguirà nello studio romano a Trinità dei Monti: «Credo sia l’unico artista che lavorava in giacca e cravatta».
Come si fa il ritratto di un artista nel suo studio? «Senza metterlo in posa, senza mettergli fretta. Io dico sempre: faccia come se non ci fossi». Quanto tempo bisogna avere? «Tutto quello che serve, non si possono prendere le luci, andare in studio e fare le fotografie in due ore e poi andarsene»). Più difficile fotografare la pittura o la scultura? «Sicuramente la scultura». Nei ricordi di Amendola la fotografia sembra però essere quasi la cosa meno importante, solo l’ultimo tassello di un incontro: «Warhol era gentilissimo, timido, elegante; dove gli chiedevo di mettersi si metteva, era più fotografo di me». Incontri che, spesso, si ripetono: «Sono stato l’unico a fare il ritratto di Warhol nel suo studio negli ultimi anni; alla fine era un’altra persona, più triste; mi ha fatto un grande pena». E ogni volta più che sulla tecnica Amendola torna a raccontare la persona, con spirito arguto: «Pensa: Moore non era mai stato a Pistoia»; oppure: «Lavorare con Nitsch è stato complicatissimo, anche se lui era una persona squisita, solo che voleva farti sempre bere il vino che produceva e che era cattivissimo, sognavo solo di andare a mangiare al ristorante, ma anche lì voleva che bevessi il suo vino». Tutto ancora vivido nella memoria di Aurelio. Che confessa: «Soltanto ora capisco davvero chi ho incontrato».
La cella di Rodin ;la grotta di Giacometti; la discarica di Bacon; il giorno e la notte di Freud; il Cern di