Corriere della Sera - La Lettura
Le brocche di Giulio Romano per la gloria dei Gonzaga
Dedica una mostra raffinata, soprattutto nei disegni, all’artista che fu il maggiore collaboratore e poi successore di Raffaello a Roma. E che preparò l’arrivo in città dell’imperatore Carlo V. La modernità e il dialogo con l’antico
Una mostra raffinata, soprattutto di disegni, che servono a capire la complessità dell’officina di Giulio Romano (14921546) giunto a Mantova alla corte dei Gonzaga nel 1524. Per percorrere l’esposizione di Palazzo Te (Giulio Romano. La forza delle cose) conviene partire dal Vasari e dalla sua Vita di Giulio (1568): «Nella venuta di Carlo Quinto imperatore a Mantova, per ordine del Duca fé Giulio molti bellissimi apparati d’archi, prospettive per comedie e molte altre cose, nelle quali invenzioni non avea Giulio pari. E non fu mai il più capriccioso nelle mascherate e nel fare stravaganti abiti per giostre, feste e torneamenti come allora si vide, con stupore e meraviglia di Carlo Imperadore e di quanti vi intervennero».
Ma come faceva Giulio, il maggiore collaboratore di Raffaello a Roma e, alla sua morte nel 1520, il prosecutore degli affreschi nelle stanze vaticane e in particolare della Sala di Costantino, come faceva a trasmettere modelli, progetti, schemi a coloro che alla corte gonzaghesca a Mantova dovevano inventarsi una nuova città? Ancora Vasari: «Si può affermare che Giulio esprimesse sempre meglio i suoi concetti ne’ disegni, che nell’operare o nelle pitture, vedendosi in quelli più vivacità, fierezza e affetto».
Così, sono i disegni quelli che servono a moltiplicare, grazie a un’articolata officina, il lavoro dell’artefice il quale, alla dipendenza del signore, deve progettare l’effimero, come nel caso della venuta di Carlo V a Mantova, ma deve progettare anche gli arredi della reggia, i servizi da tavola, i vasi, secondo modelli che proprio Giulio reinventa e che si contrappongono, in mostra, a un disegno di Michelangelo. Vediamo alcuni vasi di Giulio Romano, a cominciare da un Progetto di brocca a forma di mostro marino (15401546) dove la coda serpentinata del mostro crea il manico mentre, dalla bocca spalancata, doveva uscire il liquido, insomma una raffinata descrizione naturalistica. Progetto di saliera (1537-1546) sempre di Giulio, ci fa entrare in uno spazio diverso, quello della scultura monumentale: tre capre finemente disegnate e chiaroscurate reggono la saliera e poggiano su un prato con ai bordi tronchi d’albero; la parentela con Andrea Briosco detto il Riccio (1470-1532) è solo tematica, Giulio non rappresenta soltanto il naturale ma concepisce la saliera come un monumento dove, nella svasatura della coppa, vediamo intrecciarsi mostri marini e al culmine un putto che regge uno scudo. Ancora un esempio: Progetto per brocca con due beccucci e coperchio (1536-1546) ci dà l’idea di che cosa fosse il rapporto di Giulio con il mondo classico: un corpo all’antica, due teste di volatili sporgenti ai lati e in alto una presa ellittica per sollevare la struttura. Il contrappunto con il Progetto per saliera (1537) di Michelangelo, è evidente; qui siamo davanti a una struttura perfettamente simmetrica scandita da due assi, uno verticale e l’altro orizzontale; al centro un vaso all’antica retto da tre piedi con zampe leonine, citazione di una sella plicabilis, un sedile alla antica. Il vaso, dunque, è concepito come un’architettura.
Certo, questi servizi da tavola d’argento e d’oro li possiamo vedere solo disegnati, i metalli preziosi sono stati tutti rifusi; ma a Palazzo Te, nell’affresco con Il banchetto delle nozze di Amore e Psiche (1526-1528) Giulio dipinge una imponente «mostra» a tre ripiani dove riproduce quello che appare un trionfo di argenti da lui stesso progettati — vasi, piatti, brocche, grandi orci, repertorio di un antico reinventato nelle forme e nel racconto.
Se rileggiamo un passo de Il cortegiano di Baldassarre Castiglione (1528) capiamo la funzione di queste creazioni: educare, distinguere il raffinato uomo di corte: «Al nostro cortegiano conviensi ancor della pittura aver notizia... e quando mai altra utilità o piacer non se ne traesse, oltre che giovi a saper giudicar la eccelenzia delle statue antiche e moderne, di vasi, d’edifici, di medaglie, di camei, d’entagli e tai cose, fa conoscere ancor la bellezza dei corpi vivi, non solamente nella delicatura de’ volti, ma nella proporzion di tutto il resto, così degli omini come di ogni altro animale».
Il dialogo con l’antico serve a misurare le forme del contemporaneo. Evocare l’antico , riprenderne le forme nelle pitture, nelle sculture, vuole dire anche ricercare con fatica le fonti. Uno scultore rinascimentale, Benvenuto Cellini (15001571), nella sua Vita ce ne dà testimonianza: «Ancora, mediante questo mio piacere, m’avevo fatto amicizie di certi cercatori, li quali stavano alle velette (vedette) di certi villani lombardi che venivano al suo tempo a Roma a zappare le vigne. Questi tali in nel zappare la terra sempre trovavano medaglie antiche, agate, prasme (pietre dure), cammei; ancora trovavano delle gioie, come s’è dire ismeraldi, zaffiri, diamanti e rubini». Cellini compra a pochi denari questi pezzi scoperti dai contadini e li rivende con grandi guadagni e cita le forme delle medaglie e dei cammei nelle sue sculture dove, ancora una volta, l’antico è evocato.
Un disegno di Giulio Romano appare importante, il Progetto per lo scudo detto plus ultra o dell’apoteosi di Carlo V (1535-1540) poi tradotto in metallo da un armaiolo milanese. Siamo davanti a una dimostrazione del dialogo con l’antico dell’artista in un oggetto simbolo del trionfo del potere. In alto l’imperatore armato si erge sulla prua di una nave con sopra la Vittoria alata e davanti la Fama che regge il suo motto «Plus Ultra»; a sinistra le colonne abbattute da Ercole con dietro Nettuno indicano la navigazione trionfale oltre Gibilterra delle flotte imperiali; in basso una figura distesa secondo la romana iconografia del fiume regge una fiorita cornucopia mentre a destra una figura femminile, prigioniera tra ammonticchiati trofei, conferma il trionfo del guerriero. Lo scudo è dimostrazione delle conoscenze dell’antico di Giulio e celebrazione del trionfale arrivo a Mantova di Carlo V (1530 e 1532).