Corriere della Sera - La Lettura
Il miracolo del mare
La storia risale al 1940, è riemersa nel 2018, nel 2023 sarà un libro e un film: il Comandante Todaro affonda una nave belga ma porta in salvo i nemici. Perché? «Siamo italiani» di
La storia che ha portato alla nascita di questo libro è miracolosa, e una storia miracolosa deve essere raccontata. È una storia che ha luogo nell’estate del 2018. Quella del 2018 in Italia è stata un’estate terribile. Come tutte le estati erano aumentati i viaggi dei migranti in fuga dai lager libici, viaggi che potevano avere solo tre esiti: o riuscivano, e i barconi pieni di gente approdavano a Lampedusa, a Malta, in Sicilia, in Calabria; o venivano immediatamente bloccati dalla Guardia costiera libica, che riportava i fuggiaschi nei lager; oppure si trasformavano in tragedia, con i motori che smettevano di funzionare, i gommoni che si sgonfiavano, gli scafi che si rovesciavano e i profughi che di colpo si trasformavano in naufraghi. Ciò che rese quell’estate così difficile da sopportare fu il fatto che, anziché un potente moto di solidarietà, in Italia si produsse una violenta onda xenofoba che si accanì in particolare su questa terza categoria di persone — cioè coloro che una volta finiti in acqua, anche ammettendo che disponessero di qualche relitto cui aggrapparsi, non avevano che poche ore di sopravvivenza. Su di loro, gli ultimi degli ultimi, venivano convogliate le più basse deiezioni morali sotto forma di slogan ripetuti sui social media: «Buon appetito ai pesci», «È finita la pacchia», «È finita la crociera» — mentre alla Guardia costiera italiana veniva impedito di intervenire e i migranti annegavano. Vi erano solo alcune imbarcazioni di soccorso non italiane che incrociavano le acque, chiamate Sar (da Search and Rescue, cioè Ricerca e Soccorso), e di tanto in tanto effettuavano salvataggi, dopo i quali però iniziava l’odissea alla ricerca di un porto dove sbarcare i naufraghi (il governo nel frattempo aveva avviato la famosa politica dei porti chiusi), mentre l’onda xenofoba si schiantava sulle Ong che le avevano armate, fatte oggetto di una brutale campagna diffamatoria: «Taxi del mare» vennero chiamate le navi che effettuavano i soccorsi, alludendo a una mai dimostrata, anche nelle molte inchieste giudiziarie, complicità dei soccorritori con gli scafisti libici — naturalmente a pagamento.
In questo tempo impazzito, colmo di rabbia e di frustrazione, io non riuscivo più a dormire. I miei pensieri si allagavano di quelle mostruosità e nient’altro mi interessava — una reazione che non avevo mai sperimentato, così radicale e pervasiva, in tutta la mia vita. Per convogliare il mio malessere in azioni concrete, mi misi in contatto con i responsabili delle Ong, in lista d’attesa per far parte degli equipaggi futuri, ma soprattutto, per la prima volta in vita mia, fondai un movimento: mi resi conto infatti che nelle mie stesse condizioni si trovavano molti amici e amiche ai quali confessavo la mia frustrazione, e li arruolai sotto una sigla, «Corpi», che indicava il desiderio di mettere per l’appunto il proprio corpo tra quell’onda xenofoba e le sue vittime. Nel fare questo, però, agii come se stessi organizzando una festa per il mio compleanno: invitavo le persone di cui apprezzavo l’impegno e la coscienza sempre mostrati nel compiere il proprio lavoro, col risultato che molti si ritrovarono a far parte del gruppo solo perché conoscevano me, senza conoscersi tra loro. Ora non starò a riportarne la lista completa*, ma vorrei ricordare la risposta che ottenni da Antonio Pennacchi, uno dei pochissimi più avanti di me negli anni, quando lo sollecitai a farne parte: «A Verone’, io viaggio co’ due bastoni, ma se me chiedi di accompagnarti sulla nave a dare una mano a quei disgraziati te dico di sì».
Misi dunque insieme questo gruppo di amici volenterosi in una chat su Signal chiamata per l’appunto «Corpi». Tra di loro c’era anche Edoardo De Angelis, che avevo conosciuto da poco poiché mia moglie aveva lavorato alla promozione del suo film Il vizio della
speranza. Prima ancora di incontrarlo di persona e venire investito dalla sua fraterna energia, ero rimasto colpito da un fatto: durante le riprese del film, ogni mattina all’alba lui mandava a tutti quelli che ci lavoravano, compresa mia moglie, un messaggio che chiamava «nota», per accordarli su un’ispirazione comune cui fare riferimento durante la giornata di lavoro. Si trattava di un suo breve testo di fulminante bellezza, la cui lettura era diventata motivo d’ispirazione quotidiana anche per me, che non c’entravo niente e lo leggevo di straforo. Mi resi conto lì che Edoardo appartiene a quella stirpe di registi che scrivono bene, e questo ovviamente me lo fece apprezzare in modo particolare.
Tra le cose che Edoardo portò nella chat ci fu un link, una mattina, al sito di «Avvenire» che riportava le dichiarazioni dell’Ammiraglio Pettorino, allora Comandante della Guardia costiera, il quale, nel suo discorso in occasione dell’anniversario della fondazione del corpo, pur assicurando la dovuta obbedienza agli ordini provenienti dal governo, che impedivano alle sue motovedette di soccorrere i naufraghi nel mar Libico, teneva a precisare che «salvare le vite in mare è un obbligo di legge e morale». Dopodiché, uscendo dal testo consegnato in anticipo alle autorità, cioè a braccio, si era preso la libertà di ricordare la figura del Comandante Salvatore Todaro, che durante la Seconda guerra mondiale con il suo sommergibile affondò una nave belga in pieno oceano Atlantico per poi salvarne l’equipaggio, disattendendo gli ordini dell’Ammiraglio tedesco Karl Dönitz. In seguito a quell’iniziativa proprio Dönitz lo aveva definito «Don Chisciotte del mare» (uno slogan idiota, anche allora), ma Todaro gli aveva tenuto testa difendendo strenuamente la propria iniziativa di trarre in salvo i nemici e dando la spiegazione che adesso Pettorino faceva sua per manifestare il proprio dissenso riguardo agli ordini ricevuti dal governo: «Noi siamo marinai», aveva detto Todaro, e Pettorino ripeteva, «marinai italiani, abbiamo