Corriere della Sera - La Lettura
Conquistare per la Chiesa non è più un diritto
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Vi sono responsabilità cattoliche nella plurisecolare oppressione dei popoli indigeni. Per la Chiesa di Francesco, col baricentro nel sud del mondo, è fondamentale farci i conti. È del 30 marzo il segnale più forte che riassume il percorso degli ultimi anni e annuncia sommovimenti ancor maggiori. I Dicasteri per la Cultura e l’Educazione e per il Servizio dello Sviluppo umano integrale hanno pubblicato una Nota congiunta in cui la Chiesa condanna e «ripudia» la «dottrina della scoperta», secondo la quale — spiega il documento — «la scoperta di terre da parte dei colonizzatori concedeva il diritto esclusivo di estinguere, mediante acquisto o conquista, il titolo o il possesso di quelle terre da parte delle popolazioni indigene». La dottrina, fissata dalla giurisprudenza coloniale dell’Ottocento, trovava legittimazione in alcune bolle pontificie del Cinquecento. La Nota rinnega ora quelle pronunce papali, in quanto «legate a questioni politiche» e mai ritenute «espressioni della fede cattolica», e dichiara che la «dottrina della scoperta» «non fa parte dell’insegnamento della Chiesa cattolica». Più in generale, la Santa Sede denuncia nella Nota come «molti cristiani» abbiano commesso «atti malvagi» contro le genti indigene per i quali «i Papi recenti hanno chiesto perdono in numerose occasioni» e vanta, di contro, i tanti esempi positivi fino al martirio.
Prende forma una Chiesa sempre più insofferente della superiorità occidentale e al contempo sempre più vicina all’universalismo relativista autocritico in cui quella superiorità trova oggi la sua estrema realizzazione. di dolci e spumanti, la confusione, la vacanza, lo spreco, l’ostentazione, l’eccesso, il superfluo, e via cumulando un lemma dietro l’altro molti dei quali negativi o al negativo tendenti, ecco, tutto questo partorisce un numero di suicidi che non sono mai tanto contenuti come nel mese di dicembre, col Natale incastonato nel periclitare dell’anno.
Ma come? E tutti i discorsi e le analisi e le controanalisi sulle solitudini dei naufraghi mentre d’intorno infuriano i fuochi d’artificio?
Ridimensionati, se non proprio seppelliti, dai dati. Eccoli, infine, riferiti non a un anno, che sarebbe un po’ pochino, ma a un quinquennio intero, l’ultimo per il quale si possono sommare ed elaborare i dati anno per anno e mese per mese, per arrivare intanto a questa base numerica: nel quinquennio 2016-2020 i suicidi in Italia sono stati 19.190 per una media di 3.838 suicidi l’anno pari a 10,5 suicidi al giorno. Due sono i mesi che detengono il record dei suicidi: il mese di maggio, con una media giornaliera di 12,1 suicidi, e quello di giugno, con una media giornaliera di 12 suicidi. E c’è un solo mese nel quale la media giornaliera dei suicidi scende sotto la soglia dei 9 suicidi giornalieri: quello di dicembre, appunto, con un valore di 8,9 suicidi al giorno.
Si potrebbe sospettare che la performance del mese di dicembre invece di essere distesa sull’intero quinquennio si concentri tutta su un anno in particolare dei cinque. Non è così. La media giornaliera dei suicidi del mese di dicembre è all’ultimo posto tra le medie giornaliere dei singoli mesi negli anni 2016 e 2020, al penultimo posto negli anni 2017 e 2018 e solo nel 2019 si concede il lusso della nona posizione sulle dodici possibili. Un dominio, ovviamente al rovescio, incontrastato. Una maglia nera che non ha rivali. E se i distacchi tra i mesi sembrassero di poco conto si rifletta sul fatto che nel quinquennio considerato nel mese di maggio si sono avuti 1.870 suicidi contro i 1.380 suicidi in quello di dicembre, 490 suicidi in meno a dicembre rispetto a maggio in cinque anni, circa 100 suicidi in meno ogni anno a dicembre rispetto a maggio.
Evidentemente non esplodono solo la solitudine e la tristezza, col Natale, ma anche e forse più ancora la solidarietà e il calore umano. Se ne prenda atto.
E si prenda atto sui suicidi di altre due verità che faticano a farsi strada. In testa alla graduatoria delle regioni secondo il tasso annuo dei suicidi che è di 6,2 suicidi annui ogni 100 mila abitanti abbiamo, nell’ordine: Valle d’Aosta (12,6), Sardegna (9,5), Friuli-Venezia Giulia (9,0) e Trentino-Alto Adige (8,6). Che cosa accomuna queste regioni che sembrerebbero, specialmente Valle d’Aosta e Trentino, niente di meno che il paradiso in terra? La bassa densità degli abitanti. Sono regioni, con la parziale eccezione del Friuli-Venezia Giulia, con bassissime densità di abitanti a chilometro quadrato: rispetto alla media italiana di 195 abitanti a kmq il Trentino ne ha 79, la Sardegna 65, la Valle d’Aosta 38. Regioni con intere province senza città degne di questo nome, con una moltitudine di paesi di pochi abitanti dispersi su grandi superfici territoriali. Non è la città, non è la grande città a forte densità d’abitanti che non dorme mai, non sono i traffici e gli affari, la vita frenetica, lo sfavillio delle luci, il via via ininterrotto di auto e persone tra bar, ristoranti e ritrovi, cinema e teatri, non è tutto questo bensì semmai il suo contrario a incubare il suicidio.
E ancora, seconda verità: il tasso di suicidio cresce con l’età. È basso fino a trent’anni, molto al di sotto della media di 6,2 suicidi all’anno ogni 100 mila abitanti. Dopo i 40 anni supera questa media e raggiunge i valori più alti dopo i 75 anni, per arrivare a punte fino a 13 suicidi annui ogni 100 mila abitanti tra gli ultraottantenni. E tuttavia non lascia indifferente il tasso di 2,4 suicidi annui ogni 100 mila abitanti dei giovani di 15-19 anni, anche perché di quasi dieci volte superiore agli 0,3 suicidi annui dei ragazzi di 10-14 anni. C’è un salto quantitativo del suicidio nel passaggio all’adolescenza, dunque. Non grande, non davvero preoccupante, ma c’è. E però non basta affatto a cancellare la realtà: il suicidio è soprattutto delle età avanzate, senili.
Il peso dell’età non sembra invece farsi sentire negli omicidi, che dopo i venti anni sono praticamente distribuiti indifferentemente tra tutte le età. Dal punto di vista territoriale, invece, tre regioni, tutte del Mezzogiorno, si staccano decisamente dalle altre, con tassi di omicidio significativamente superiori al valore medio nazionale di 0,5 omicidi annui ogni 100 mila abitanti: la Calabria (0,96), la Puglia (0,80) e la Sardegna (0,78). Vale la pena sottolineare, tuttavia, come soltanto la Calabria superi, e comunque di poco, il valore medio dell’Unione Europea (0,9).
Infine, cos’è stato della mortalità violenta nell’anno del Covid e del lockdown? È stato che non c’è stato niente di particolare. I suicidi si sono mantenuti sui livelli, bassi, degli anni precedenti mentre gli omicidi hanno fatto segnare una leggera contrazione. Si potevano temere depressioni più profonde, umori più neri, e dunque più suicidi. Come anche esplosioni di pulsioni violente per la forzata convivenza di famiglie sull’orlo di una crisi di nervi. Ma per quanto gli omicidi di donne, diversamente dal totale, non siano diminuiti, neppure sono aumentati. Spostamenti minimi, contenuti, dunque. Così è anche la mortalità violenta nel suo complesso in Italia: contenuta, se non proprio minima. Perché non prenderne atto?