Corriere della Sera - La Lettura

Una madre, una telecamera in casa: il «domestic thriller» di Schivare la morte che ti segue

Harlan Coben

- Dalla nostra corrispond­ente a New York VIVIANA MAZZA

Arthur Less è tornato. Il goffo, innamorato, sempre in fuga «Scrittore Americano Minore» ha ritrovato il suo Freddy e vive tranquillo. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo e, presto, costringer­à il povero Less a rimettersi in viaggio, non per il mondo ma questa volta per l’America profonda. Su un camper verde, con un carlino. Succede in Less a zonzo, il nuovo romanzo di Andrew Sean Greer che esce ora in Italia tradotto da Elena Dal Pra per La nave di Teseo: arriva dopo Less, uscito nel 2017. In mezzo ci sono stati Trump, la vittoria di Biden, una pandemia e un Pulitzer, vinto da Greer proprio con la puntata numero uno delle gesta di Less. Lo scrittore è in California, dove vive quando non è in Italia: «la Lettura» lo ha raggiunto via Zoom.

C’è voluto coraggio a scrivere il sequel di un romanzo da Pulitzer?

«All’inizio non volevo farlo: un libro che vince un premio deve essere lasciato decantare. Stavo scrivendo un altro romanzo, con altri personaggi, sempre un viaggio negli Usa. La storia però non decollava e quando sento che un libro sta fallendo devo fare di tutto per salvarlo. Da qualche parte in testa ho sempre un’idea folle, ma solo quando sono davvero disperato scelgo di usarla. Questa volta era utilizzare i personaggi di Less: l’ho fatto e all’improvviso il libro ha preso vita. In America altri autori hanno scritto sequel: credo che in parte sia dovuto alla pandemia che ha spinto a rifugiarci in luoghi e personaggi familiari».

«Less a zonzo» lo ha scritto proprio durante la pandemia.

«In Liguria e a Milano. La pandemia mi ha fatto molta paura ma per scrivere è stata un periodo ottimo. La distrazion­e più grande, mentre scrivevo, non erano le notizie sul Covid ma le elezioni americane. Volevo scrivere un libro sull’America, su Trump, sulla nostra strana forma di democrazia. Quando finalmente è finita e Biden ha vinto, ho finito il libro».

Per alcuni la presidenza di Biden è stata un promessa disattesa.

«Quando è stato eletto Obama speravo in una grande trasformaz­ione, ma da Biden volevo che fosse un bravo tecnocrate, non un sognatore. Dopo Trump serviva una persona che facesse le cose correttame­nte, senza grandi emozioni».

Ha scritto in lockdown un libro «on

Alla fine dell’anno scorso, prima che partisse per Milano per ritirare il Raymond Chandler Award, «la Lettura» incontrò Harlan Coben in New Jersey davanti al capannone dove si girava una delle serie tv di cui è creatore e produttore, basata su uno dei suoi libri. Al suo fianco, in queste produzioni, lavora la figlia primogenit­a Charlotte, 26 anni. A lei è dedicato il romanzo appena pubblicato in Italia da Longanesi, inganno di troppo: «A Charlotte. Per quanto tu possa diventare grande, sarai sempre la mia piccolina».

Con oltre 75 milioni di copie vendute nel mondo e 33 romanzi tradotti in 45 lingue, Harlan Coben è considerat­o il padre del domestic thriller. Nelle sue storie ci sono pochi investigat­ori e delinquent­i tradiziona­li: al centro stanno le famiglie, i segreti e l’assenza. Il thriller è sempre una finestra sull’ansia e sull’inquietudi­ne contempora­nee. E i romanzi di Coben, incluso questo, riflettono bene le paure nell’America di oggi.

La protagonis­ta di Un inganno di trop

Unpo è Maya Stern, una ex militare che ha combattuto in Iraq e in Siria, dove qualcosa di terribile è accaduto ed è stato rivelato da una talpa (più simile a Julian Assange o Edward Snowden che all’aviatore ventunenne responsabi­le degli ultimi leak del Pentagono), ponendo fine alla sua carriera. Ora Maya dà lezioni di volo all’aeroporto di Teterboro in New Jersey, ha sposato il rampollo di una ricca famiglia locale e si è ritrovata immersa in un universo — al quale in verità non potrà mai appartener­e — di soccer mom, le donne bianche americane del ceto medio suburbano impegnate per la maggior parte del tempo a seguire i figli nelle attività sportive extrascola­stiche.

La storia inizia con l’assenza: il funerale di suo marito Joe. Poi la riapparizi­one di quest’ultimo nella telecamera con cui sorveglia l’adorata figlia di due anni mentre gioca con la tata. Ma è vero oppure è un’allucinazi­one? In fondo, Maya la notte non riesce più a dormire, tormentata dai suoni della guerra. Il romanzo così ci trasporta nell’esperienza del ritorno difficile in patria dei soldati

affetti da stress post-traumatico, tanto più arduo in una nazione dove l’idealismo dell’intervento all’estero è svanito. È una nazione che, come Maya, si sente disillusa — dopo l’11 settembre e dopo il caotico ritiro dall’Afghanista­n — e che si domanda che senso abbia combattere in guerre lontane da casa, se poi si è incapaci di difendere la propria famiglia dai pericoli interni.

La morte «segue» Maya, che non riesce a mettere a tacere le voci del fronte dentro di sé. La morte le è rimasta addosso. Ma il trauma dell’assenza e della perdita è qualcosa che lo stesso Coben ha vissuto, non in guerra ma nella domesticit­à dei sobborghi del New Jersey dove è cresciuto e dei quali si è fatto poeta.

«Scrivo della perdita, perché ne ho fatto esperienza», ci ha detto quella mattina di alcuni mesi fa, dopo avere posato per una foto con la figlia Charlotte nel vento del New Jersey. In un articolo pubblicato sul «New York Times» nel giorno della festa del papà del 2003, l’autore aveva raccontato la scomparsa di suo padre. Harlan aveva 26 anni e si considerò responsabi­le per quello che accadde. Aveva accompagna­to il padre a prendere l’aereo per la Florida, ma erano in ritardo e il padre fu costretto a correre per non perdere l’aereo. «Disperatam­ente fuori forma, corse per non perdere quello stupido volo in modo da poter essere a un incontro che non significav­a nulla per nessuno». Sei ore dopo, telefonò dal suo hotel. Aveva fitte al petto. Lo portarono in ospedale. La famiglia corse in aeroporto. Arrivarono troppo tardi per poterlo salutare; suo padre morì da solo.

Leggendo Un inganno di troppo è impossibil­e non vedere un riflesso di quell’esperienza personale dell’autore. Quale messaggio lasciare a tua figlia, se sai che morirai? Una lettera da aprire ad una certa età? Istruzioni su come crescerla? Bugie o la verità? No, «la dura verità è preferibil­e a una fantasiosa bugia», si legge a un certo punto in questo romanzo.

Prima di morire, all’improvviso e da solo in ospedale, il padre di Harlan Coben lasciò ai medici un ultimo messaggio da riferire al figlio quando fosse riuscito ad arrivare in Florida dal New Jersey. Le sue ultime parole furono: «Ha detto di cercare nelle sue tasche». In una tasca dei pantaloni del padre lo scrittore trovò una chiave. Serviva ad aprire la porta della stanza d’albergo. Mentre lo portavano via in barella, morente, il padre se l’era messa in tasca, perché il suo pensiero era stato che i familiari avrebbero avuto bisogno di un posto dove dormire quella notte.

Così in questo romanzo Maya si accorge che la morte la sta seguendo. E più di ogni altra cosa al mondo lei vuole assicurars­i che la morte non segua sua figlia.

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