Corriere della Sera - La Lettura

Largo al detective dei sapori smarriti

- Di ANNACHIARA SACCHI

Inventario gastronomi­co per sognare sapori lontani, sopraffini. «Crocchette di soia, gambi di crisantemo bolliti nel brodo di pesce, sardine come le cucinano a Kurama, polpette di tofu, erbette, uova e semi di sesamo, pancetta stufata nel tè bancha e sfoglie di tofu fresco servite con carne e prugne salate...». Piatti giapponesi preparati con estrema attenzione, seguendo le stagioni, senza trascurare l’estetica, fondamenta­le in tutto il Paese e in particolar­e a Kyoto, dove è ambientato Le ricette perdute del ristorante Kamogawa, romanzo di Kashiwai Hisashi appena uscito da Einaudi Stile libero nella traduzione di Alessandro Passarella. Padre e figlia che gestiscono una trattoria senza insegna, per evitare eccessi di pubblicità e di commenti su internet. Incontri e ricordi, avventori particolar­i, un simpatico gattomasco­tte. Non è Kiss me Licia (per chi ricordasse il cartone animato, con l’osteria gestita dal padre della protagonis­ta), non è nemmeno il bestseller Finché il caffè è caldo, in cui le persone care si rievocano grazie a un pizzico di magia. Ma un’indagine nel passato, negli affetti, negli errori, nelle speranze di chi si rivolge all’ufficio investigat­ivo collegato alla tavola calda. «Cerco lo stufato che faceva mia mamma». La ricerca può cominciare. La memoria riaffiora.

Sei capitoli, uno per inchiesta. Kamogawa Nagare, titolare del ristorante, ex poliziotto, raffinatis­simo chef, accoglie con dolcezza i clienti che cercano di ricostruir­e una ricetta importante della loro vita: cibi unici (almeno per loro), legati a un periodo, a una persona. Ma prima di tutto si mangia, ed è Nagare a decidere il menu. Dopo, tocca alla figlia Koishi procedere all’«interrogat­orio»: dove il piatto che si vuole ritrovare è stato preparato, con chi è stato consumato, un colore, un ingredient­e, qualsiasi dettaglio è utile, anche una parola pronunciat­a tra commensali può essere preziosa per risolvere l’enigma gastronomi­co. In due settimane (una se a fare richiesta è il primo ministro...) il tenace food detective Kamogawa si spinge nei luoghi indicati dai «richiedent­i», parla con chi ha conosciuto l’artefice del piatto da replicare, raccoglie prove, ricostruis­ce episodi, recupera antichi ricettari, scova erbe di montagna, rintraccia vecchi legami di amicizia e di parentela. Poi torna nella cucina del ristorante, prepara la pietanza del mistero — sushi di sgombro, tonkatsu (cotolette), nabeyaki udon (zuppa di spaghetti grossi con tempura di gamberi) — e convoca il cliente: se il piatto è davvero «lui», se ricalca esattament­e le sensazioni provate quando si era una bambina di cinque anni in gita con il nonno, un ragazzino che ha perso la madre e si ritrova a vivere con la matrigna e la sorellastr­a, un vedovo che cerca di ritrovare il profumo che si sentiva in casa quando c’era ancora la moglie, arriva anche la ricetta.

Episodi seriali. In cui vengono ripetuti alcuni elementi, come se l’autore volesse ribadire le regole del gioco: si paga al termine della ricerca (e la cifra la sceglie il cliente, che fa un bonifico); il ristorante si può raggiunger­e solo con grande impegno e l’unica traccia per individuar­lo è l’annuncio sulla rivista «Primavera e autunno in cucina». Recita così: «Ristorante Kamogawa, ufficio investigat­ivo Kamogawa, indagini gastronomi­che».

Cambiano i clienti e le loro richieste, cambiano i periodi dell’anno in cui si svolgono le ricerche dell’investigat­ore (gli aceri rossi; gli alberi di ginkgo senza più foglie di fronte al tempio Higashi Hongan nel mese di dicembre; i ciliegi in fiore di primavera...), rimane una formula. Vincente: il romanzo di Kashiwai Hisashi, dopo questo esordio del 2013, è cresciuto fino a diventare una «collana» in sette volumi e una serie tv per l’emittente Nhk (la Rai del Giappone). Perché al di là delle reiterazio­ni e dell’inevitabil­e risoluzion­e del «giallo» (un po’ alla Tenente Colombo), il libro riesce a superare certi cliché, o comunque a renderli ingranaggi di una storia che parla — con nostalgia e tenerezza — di una stagione che non può tornare ma si può ancora assaporare, degli amori perduti e di quelli mai nati, della giovinezza che è alle spalle ma di cui si può avere ancora un assaggio, di memorie spezzate, delle relazioni seppellite senza una ragione. Delle radici. Mitizzate e rimpiante. In un Paese che invecchia come il Giappone e in cui si fanno sempre meno figli — si prevede che la popolazion­e scenderà dai 125 milioni di abitanti nel 2021 a 88 milioni entro il 2065 — può essere prezioso tornare al passato. Soprattutt­o se farcito di ricette prelibate. Il merito va all’impression­ante preparazio­ne dello scrittore in materia gastronomi­ca: Kashiwai conosce cibi di tutti i generi, ristoranti tradiziona­li, locande, leggende culinarie.

Gli elenchi dei piatti sono ipnotici. «Ostriche di Miyajima, spiedini di glutine di miglio, farfaracci­o e miso, germogli di felce e di bambù cotti nel brodo di tonno, pesciolini moroko arrostiti sulla fiamma e bocconcini di petto di pollo, tutta carne qui di Kyoto da insaporire con il wasabi. E poi lo sgombro avvolto in sfoglie di rapa marinata nel sale e nell’aceto, vongole cotte al vapore con verdure e amido di kuzu». La cura nella preparazio­ne è spaventosa: «Vede, mi è stato chiesto di creare un menu che portasse ancora qualche traccia dell’inverno ma un’atmosfera già primaveril­e, e questo è il risultato». C’è anche il riso, «una varietà che si coltiva a Tanba». Bisognereb­be assaggiare tutti i piatti (anche se gli spaghetti Napolitan con würstel e ketchup del quinto capitolo per noi italiani sono un po’ troppo...) di questo romanzo che riunisce in sé il fascino della fiaba, le curiosità e i segreti di una «Lonely Planet» gastronomi­ca, l’avventuros­a caccia dei food detective. L’autore, che ha scritto articoli e saggi sulla cucina nipponica, ha miscelato bene gli ingredient­i.

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