Corriere della Sera - La Lettura
La guerra era musica di sottofondo
Nomade per vocazione e necessità, Christopher Isherwood calò la propria esistenza nelle sue opere. Non fa eccezione «Il mondo di sera», romanzo dove la trama s’intreccia con riflessioni sull’arte in un presente investito dalla tragedia
Un uomo alto, biondo, né giovane né vecchio, il viso ansioso e blandamente attraente, gli occhi scuri, troppo espressivi: così è Stephen Monk, il protagonista/alter ego di Il mondo di sera, romanzo che Christopher Isherwood pubblicò nel 1954, tradotto in italia da Sugar tre anni dopo e ora riproposto da Adelphi nella versione di Laura Noulian. Un ritratto che non assomiglia a quello che allo scrittore fece David Hockney mettendolo in posa con il compagno, l’artista Don Bachardy. Quando uscì Il mondo di sera ,lo scrittore nato in Inghilterra che aveva viaggiato per tutta l’Europa per poi trasferirsi in California, aveva già pubblicato (con la Hogarth Press di Virginia Woolf) i 6 racconti (o episodi) di Addio Berlino, tra cui Sally Bowles, che ispirò il celebre film Cabaret di Bob Fosse con Liza Minelli. Amico, fin dagli anni scolastici, di W. H. Auden con cui intrecciò una relazione, e di Stephen Spender, Isherwood considerava E. M. Forster «l’unico scrittore che avrebbe senz’altro definito suo maestro» come noterà nell’autobiografico Christopher e il suo mondo (1976).
In Addio a Berlino quel giovanotto che aveva in mano «il futuro del romanzo inglese» (Somerset Maugham dixit) scrisse di essere «una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa», cioè un testimone non ideologicamente impegnato e tuttavia sempre presente del declino della Repubblica di Weimar, in cui i drammi sociali, le fertili avanguardie artistiche, le trasgressioni sessuali con cui faceva concorrenza a Parigi, si intrecciano alla minacciosa ascesa nazista. Una postura, quella dell’osservatore che, in qualche modo, si registra anche in Il mondo di sera, dove gli eventi cruciali degli anni tra Trenta e i primi Quaranta del Novecento sono quasi un brusio nelle conversazioni mondane della ricca società borghese che si muove, con i bauli sempre pronti e il portafoglio aperto, al di qua e al di là dell’Atlantico. «Nel corso di tutto quell’ultimo anno, la guerra era esistita soltanto come una rumorosa musica di sottofondo, sgradevole e appropriata al mio costoso inferno privato», riflette il protagonista, Stephen Monk.
Sulle colline di Hollywood, nell’aprile del 1941, data in cui comincia la narrazione in prima persona, è in corso una festa con produttori cinematografici, giovani attori, stelline di second’ordine: si parla del Blitz su Londra, di Erwin Rommel e degli scontri in Africa «ma si capiva come a nessuno dei presenti queste faccende interessassero un granché». È lì che Stephen scopre, o crede di scoprire, qualcosa che già sa, il tradimento della moglie, Jane, disinibita americana conosciuta in Francia, quando ancora era viva la prima moglie Elizabeth, scrittrice maggiore di lui di 12 anni e cagionevole di salute. È questo che lo spinge a lasciare la California e a rifugiarsi a Tawelfan (che in gallese significa «luogo tranquillo»), un piccolo villaggio di quaccheri vicino a Philadelphia, nella casa della sua infanzia, dalla donna che lo ha allevato e che lui chiama «zia Sara». Turbato, infelice, incerto su chi sia veramente, costretto a letto per un incidente forse voluto, assistito da Gerda, una giovane tedesca fuggita dalla Germania nazista e accolta da Sara, Stephen ripercorre, attraverso i ricordi e la lettura della corrispondenza di Elizabeth, il passato recente.
La devozione per la moglie che lo crea come se fosse il personaggio di un suo romanzo (Il mondo di sera è, anche, il titolo del libro che lei scrive durante il matrimonio); l’attrazione prima respinta, poi consumata per un giovane fotoreporter innamorato di lui; la fede e la morale, i rimpianti e i rovelli interiori nutrono la scrittura alta e apparentemente facile di Isherwood. Nelle quasi 400 pagine del racconto, attraverso dispositivi narrativi diversi, abilmente incastrati (flashback, lettere, dialoghi, riflessioni), lo scrittore ripercorre in parte le tappe della sua stessa vita — i viaggi da nomade, la Germania nazista, Hollywood, New York, Parigi, le Canarie, l’amicizia, gli amori e la gelosia — riuscendo a dare contro della complessità dell’epoca, non tanto sul piano degli eventi storici che la marchiano a fuoco, piuttosto sul piano delle relazioni personali. Lo fa fingendo di restare in superficie, con un personaggio privilegiato e annoiato («avevo indagato ogni genere di piacere, vizio, vergogna e angoscia mentale e li avevo trovati tutti assai sopravvalutati») che non si ritiene all’altezza delle frequentazioni intellettuali della moglie, tra cui Virginia Woolf.
Le riflessioni sull’estetica, come la definizione di camp («il vero camp alto sottende sempre una certa serietà. Non si può rendere camp ciò a cui non attribuiamo valore») si intrecciano con quelle su letteratura e scrittura, compresa una lezione sull’impegno che Stephen impartisce a Gerda, una sorta di excusatio rispetto al fatto di non prender posizione esplicita rispetto a ciò che accadeva in Germania: «Elizabeth trasportava tutti i temi che affrontava con la scrittura in un suo microcosmo personale... Per esempio, la sua reazione alla notizia che milioni di persone erano state massacrate poteva essere quella di raccontare una storia su due bambini che, per divertirsi, uccidono un gatto a sassate».
Noia esistenziale «Avevo indagato ogni genere di piacere, vizio, vergogna e angoscia mentale e li avevo trovati tutti assai sopravvalutati»