Corriere della Sera - La Lettura
Il poeta che non seppe diventare poeta-poeta
Umberto Bellintani è uno di quei casi molto rari che il lettore di poesia fatica a riportare a ragione e a collocare criticamente. Non è stato soltanto, infatti, un poeta isolato (il che non sarebbe di per sé una gran novità), ma un poeta a tutti gli effetti inclassificabile. Quando all’inizio degli anni Cinquanta nell’ambiente letterario cominciarono a circolare le poesie di questo parvenu ormai sulla soglia dei quaranta, le reazioni dei poeti e critici di più lungo corso — Eugenio Montale, Vittorio Sereni o Alessandro Parronchi, ad esempio — furono in genere di un certo sconcerto, come per un’approvazione oscillante tra lo stupore e la perplessità. La sua poesia portava con sé un’energia, una propulsione espressiva, una necessità indubitabili, infatti, ma queste non si sapeva poi, visto che nella padronanza della cosiddetta arte poetica palesemente difettava, da dove venissero, per quale misteriosa alchimia si fossero realizzate sulla pagina, come facessero, in sostanza, a reggersi in piedi.
Si sarà capito come non fosse affatto un uomo di lettere. «Sono ignorantissimo ma credo di essere abbastanza intelligente. La mia intelligenza è fatta di pietà», ha scritto in una sua autopresentazione (e bisognerà ricordarsi di questa parola per lui così importante, pietà, che con l’intelligenza in genere sembrerebbe avere poco da spartire). Era nato a San Benedetto Po, in provincia di Mantova, nel maggio del 1914, e più precisamente nella frazione di Gorgo, dov’è sempre vissuto ed è mancato nel 1999: «Berto della Rita/ nato nel mese/ più bello dell’anno/ a Gorgo sul Po/ nel Mantovano». Nel corso degli anni Trenta aveva studiato e cominciato a praticare come scultore, ma poi la guerra gli aveva rubato a un tempo vita e professione. Richiamato alle armi, dal 1940 ha combattuto in Albania e in Grecia, poi dal 1943 al 1945 è stato recluso in diversi campi di lavoro in Germania e in Polonia. Dal suo rientro ha lavorato per lo più come applicato di segreteria nella scuola media di San Benedetto Po (vi fa riferimento anche in una sua poesia).
Il volume che adesso si ripubblica, o meglio, che si ripubblica in modo nuovo per la cura di Maurizio Cucchi (è a lui che anzitutto si deve la riscoperta del poeta di Gorgo), s’intitola Nella grande pianura, ed era uscito dapprima nel 1998, quando Bellintani era tornato ad affacciarsi sulla scena della nostra poesia dopo un silenzio durato 35 anni (allora come oggi l’editore è Mondadori). Infatti, dopo l’esordio tardivo ma paradossalmente ancora acerbo di Forse un viso tra mille (1953), Bellintani grazie all’approvazione di Sereni era approdato da Mondadori, dove nel 1963 aveva pubblicato il libro che rimarrà il suo più bello, Etu che m’ascolti. Da quel momento, come detto, si sarebbe volontariamente sottratto alla vita pubblica della letteratura, continuando tuttavia a scrivere privatamente. Nella grande pianura — questo vi potrà trovare il lettore — oltre a una scelta dal primo libro, comprende nella sua interezza E tu che m’ascolti, quindi una selezione delle poesie composte dopo il 1963, nonché un’appendice (è questa la novità della nuova edizione rispetto a quella del 1998) che raccoglie sia testi provenienti da alcune pubblicazioni sparse, sia inediti in senso assoluto.
La pianura, dunque. Si può dire che per Bellintani tutto parta da lì e lì sempre ritorni. «Ed io cammino e cammino nella notte/ per la silente pianura e la stellata», scrive ad esempio. Ed è ancora la «pianura cara» e «madre dolcissima» invocata in Qual grazia di te; ma anche la «pianura verde/ tutta gremita di margherite e bianchi scheletri» di un’altra sua poesia. Non c’è che dire, pochi, davvero pochi sono i poeti che in modo più diretto facciano sentire il brivido sacro della pura e semplice presenza del mondo, di quanto non riesca a Bellintani in alcune sue poesie (non in tutte, no). Forse chi è nato e vive nella pianura questo sentire — che sta tra la devozione per il mondo creato e l’indignazione per la sua crudeltà e ingiustizia, tra il riconoscimento ammirato di ciò che esiste e lo smarrimento, la paura — l’avverte con più forza. Ma è vero che qui la pianura, questa entità che non solo si vede, ma si sente e si respira, sta per la presenza stessa della vita e della morte, per ciò che ci circonda e ci sovrasta, per un’alterità insieme fraterna e minacciosa, per quel mistero che è il tutto. Chiamiamolo come vogliamo. Bellintani di suo lo definisce semplicemente «il senso profondo della vita», «il senso dell’esser vivi», «l’arcano» o «l’immenso della vita». Ed ecco allora il poeta al suo meglio, che comporta di regola un certa irregolarità del dire, qualcosa di forzato che non si sa se attribuire a imperizia o una spinta espressiva così forte da far aggio sulle parole (è bello così, però): «È la mia pianura ancora più vasta e sonora d’un gran mare./ E qui ti parlo e non v’è cosa/ che io non senta grandiosa e il contemplare/ in quest’immenso respirare d’una lucciola/ appena o d’una fronda/ io confondo immortale il mio respiro».
Sono tante le invocazioni e le celebrazioni del vivente in queste poesie. Ma non sono meno numerosi i lamenti e le deprecazioni verso un Dio veterotestamentario artefice del bene come del male (torna spesso il rosso, qui, non a caso; e la bandiera rossa, anche). E del resto Bellintani è proprio così: un po’ francescano e un po’ pagano. E tale è appunto il suo immaginario poetico, che è realistico e fantastico insieme, senza differenze. C’è la dolcezza ma anche la ferocia della natura, c’è una mucca che manda il suo grido al mondo, ci sono le bestie e gli alberi che parlano, ci sono gli animali esotici, il coccodrillo soprattutto, che fa pensare a quello appeso nel Santuario della Beata Vergine delle Grazie, poco lontano da Mantova, da cui Guido Conti ha tratto il racconto Il coccodrillo sull’altare (peraltro anche Antonio Ligabue, lui pure uomo di pianura e di fiume, dipingeva le tigri).
Scrivendo di Bellintani sul «Corriere della Sera» nel 1954, Montale, che aveva capito tutto, si era chiesto cosa sarebbe accaduto se questo singolare poeta «senza carte in regola» avesse imparato il «mestiere». «Scriverà — così si era risposto — poesie meno interessanti ma più belle». Ed è allora una fortuna che non abbia mai imparato. Tra tante poesie belle, stavolta stiamo dalla parte di chi ci fa sentire che ne vale davvero la pena.
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