Corriere della Sera - La Lettura
Manoscritti perduti. O inventati
Gennaro Serio costruisce un «romanzo di carte» mettendo insieme un diario, alcune lettere, due testi (uno in tedesco, l’altro in portoghese), una bambola, riferimenti a scrittori di ogni epoca. Un malinconico divertissement metaletterario
«La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione»: così Dora Diamant, l’ultima compagna di Kafka, commenta l’incontro allo Steglitzer Park di Berlino con una bambina che piange perché, spiega a Kafka, ha perso la sua bambola. Con lo scrittore che, per consolarla, s’inventa che quella ha scritto proprio a lui di trovarsi in viaggio, promettendole di portarle la lettera l’indomani.
E così, per ben tre settimane Kafka, «in tutta serietà, come si trattasse della creazione di un’opera, perché la bambina doveva assolutamente essere resa felice e preservata dalla delusione», stende e consegna alla bambina ogni giorno una lettera della bambola, con sue nuove avventure, «sorta di romanzo in modo così accurato e pieno d’umorismo che la situazione della bambola risultava perfettamente comprensibile», spiegandone poi la fine col matrimonio di lei. Ed è proprio su quel commento di Dora che Gennaro Serio costruisce Ludmilla e il corvo. A partire da piccoli ritocchi come l’incontro della bambola con un corvo e un’ultima inesistente lettera di Kafka a Hermann Broch nella quale, tra un elenco di sue opere, inserisce «quella risma di scartafacci scritti al numero 13 di Grunewaldstraße, che come sai ho avuto la sciagurata idea di radunare sotto il titolo Der Rabe e di cui tuttavia non sono più in possesso»; lettera «che ha fondato il mito di Der Rabe, e che ha impegnato generazioni di filologi di tutto il mondo in una ricerca di senso, e poi di tesori perduti».
Perché è proprio attorno al «quarto e ultimo romanzo» di Kafka che ruota questo lavoro, degno d’entrare in un catalogo di Mirabiblia. Un «romanzo di carte» (un diario; delle lettere; due manoscritti), autentico pozzo di San Patrizio letterario (con rinvii che vanno da disparati passi di Kafka a Dante, Poe, Leopardi, Collodi, Kavafis, Tabucchi, Pessoa, Alexandre O’Neill, Ungaretti, Manganelli, Magrelli, Münster, citazioni reali e immaginarie, traduzioni a confronto, come già nel suo precedente Notturno di Gibilterra, la sfiziosa sigla bibliografica «Bazlen edizioni» anziché Adelphi) entro una struttura da matrioska (persino con note rinvianti al testo per chiarimenti bibliografici). E però giocato ossimoricamente col «nulla»; perché alla base di tanto sapiente ricamare sta qualcosa di inesistente: sia il romanzo epistolare Der Rabe (Il corvo) sia la versione portoghese O cuorvo.
Si sprigiona, anche qui come in Notturno di Gibilterra, vari intrecci narrativi, con incrocio di più generi e glosse. Perché c’è la storia d’un manoscritto originario di cui si racconta anche lo smarrimento; cui fa da contraltare un manoscritto ritrovato in versione portoghese. Ma c’è pure la storia di chi, se non il primo, almeno quel secondo manoscritto va inseguendo con motivazioni filologiche, come un ricercatore islandese che padroneggia ben 14 lingue indicato come l’agrimensore (come il K. del Castello), che dopo tanto girovagare (genere odeporico) giunge infine a Coimbra (e Coimbra sarà il titolo del diario da cui viene la sua storia) dove quell’opera è custodita da Quin Filho, un produttore vinicolo «buon diavolo, un uomo che non aveva letto niente di niente», al quale lo ha affidato il proprietario, il tranquillo (salvo poi scoprirlo come «un uomo oscuro») dottor Odis Sages. Ed è l’ultimo atto d’una caccia che — storia nella storia — ha visto anche una rapina di manoscritti kafkiani nel caveau d’una banca svizzera.
È un manoscritto, O cuorvo, nel quale quella bambola smarrita narra in forma di lettera alla sua «fedele compagna» bambina, ora senza nome — anche perché Ludmilla, nome della fanciulla nell’incontro al parco nella libera trascrizione di Serio (nome assente invece in Dora), è ora il nome della bambola — la propria storia erratica alla ricerca del suo amico corvo, con «la tracolla stipata con due manoscritti»: quello tedesco sottrattogli proprio quando pensava di distruggerlo, e la versione portoghese, della quale si libera a Coimbra donandola a un «gentiluomo» con uno «strano ciondolo che teneva al collo» raffigurante una bambolina.
Il racconto epistolare è offerto però quale trascrizione di un «mio personale ricordo di un certo racconto» da parte di chi sta alle spalle di tutto: un io anonimo (come il detective di Notturno di Gibilterra), nato nel 1924, anno della morte di Kafka, ultimo membro della setta «O cuorvo» avente per principio il «rispetto delle volontà del nostro profeta unico e solo – il dottor Franz Kafka di Praga», ossia la distruzione dei suoi stessi manoscritti, disattesa da Max Brod, sottraendo «i manoscritti soltanto a coloro che hanno letto Il castello», senza però poterli leggere, «tranne il nostro sodale più anziano».
Un io deus ex machina della vicenda, che, pur nel dubbio dell’appartenenza a Kafka del contenuto del manoscritto portoghese, ha trovato «tardi il coraggio di scrivere questo resoconto generale degli avvenimenti» col quale integra momenti assenti dal diario dell’agrimensore e spiega tutta la macchinazione che sta alle spalle della vicenda. Ed è anche per questo che, in una narrazione affidata a una scrittura elegante che si dipana fluida nel ben oliato costrutto narrativo da gustoso gioco metaletterario, non può non affiorare quel tocco di malinconia proprio di chi avverte il proprio scritto come «l’ultima testimonianza di un tragico errore». Che non potrà non lasciare il lettore «nell’incertezza»: che forse, alla fine, quel Kafka, «come è stato per tutti i veggenti», «io e voi lo abbiamo frainteso».