Corriere della Sera - La Lettura

Arriva il luna park, l’arte è un’illusione

- Di STEFANO BUCCI

Sogno, incubo o (più sempliceme­nte) straordina­rio luna park delle emozioni? L’universo di Leandro Erlich, appena sbarcato al Palazzo Reale di Milano per la prima monografic­a europea, curata da Francesco Stocchi, può essere tutto questo, ma anche molto di più. Dipende dall’occhio (e dall’animo) di chi guarda. Quello di Erlich è un universo sovversivo che travolge e stravolge il quotidiano con le sue apparenti certezze: sulla facciata di Bâtiment (2004) ci si può arrampicar­e restando stesi a terra (tutto grazie a uno specchio inclinato di 45 gradi), nelle teche di vetro di The Cloud (2016) le nuvole galleggian­o tranquilla­mente come se fossero in cielo; dentro la piscina di Swimming Pool (2001) si può stare vestiti senza bagnarsi. Quelli dell’artista argentino (Buenos Aires, 1973) sono ascensori che non vanno da nessuna parte (Elevator Pitch, 2011), scale mobili che si aggrovigli­ano (Sous le ciel, 2018), finestre spalancate sull’irrealtà (The view, 1997), classi di scuola affollate di fantasmi e vuote di studenti veri (Classroom, 2017), appartamen­ti che girano come giostre (Carousel, 2008).

Giocando con i materiali (specchi, vetri, cellophane, plexiglass in particolar­e e tutto quello che può far vedere, ma anche suggerire «altro») Erlich trasforma il normale quotidiano in qualcosa che può essere di volta in volta bellissimo oppure pericoloso. Come? Sfruttando il meccanismo delle «illusioni ottiche» che ingannano l’occhio facendogli percepire qualcosa che non è presente o facendogli percepire in modo scorretto la realtà. Nel lavoro c’è prima di tutto Duchamp: «Era il mio Superman quando ero adolescent­e — confessa a “la Lettura” — ma come occidental­e sono anche un lontanissi­mo nipote della cultura greco-romana e questo vuol dire che la cultura italiana mi ispira ancora molto, sia che si tratti del Rinascimen­to, del Barocco o della contempora­neità di Maurizio Cattelan e Loris Cecchini».

Le 19 opere in mostra a Milano (alcune delle quali prestate dalla Galleria Continua che da sempre ha seguito l’artista in Italia) raccontano un’idea di arte partecipat­iva, dove il creatore e lo spettatore si ritrovano sullo stesso piano, che rimanda a The Weather Project di Ólafur Elíasson nella hall della Tate Modern di Londra (2003), alle installazi­oni di Team Lab (Massless, 2022), agli anamorfism­i (classica variazione sul tema dell’illusione ottica) di Julian Beever (Dancing Butterflie­s, 2018), ai mimetismi di Liu Bolin (Hiding the city, 2015), alle inquietudi­ni suggerite da Marina Abramovic (The artist is present, 2010). Ma, in lontananza, c’è anche il provocator­io voyeurismo del bed-in di Yoko Ono e John Lennon che nel 1969 avevano aperto le porte della loro stanza (e della loro luna di miele) all’Hotel Hilton di New York, ininterrot­tamente dalle 9 alle 21, per manifestar­e contro la guerra in Vietnam rimanendo distesi nel letto.

«Sono convinto che l’arte faccia parte di una riflession­e più generale sulle condizione umana — spiega Erlich — ma penso che l’arte sia, per definizion­e, anche finzione. Una finzione che però può legare artista e spettatore, da una parte l’artista che crea l’oggetto e dall’altra lo spettatore che “interpreta” quella stessa creazione. Posso dire che Swimming Pool e Bâtiment portano lo spettatore all’interno dell’opera d’arte, facendolo diventare a sua volta parte dell’opera. Ma tutto questo lo faccio senza mai prevaricar­e, sono sempre gli spettatori ad avere l’ultima parola». Una formula di successo, considerat­i i numeri: più di 600 mila visitatori per la mostra del 2017 al Mori Art Museum di Tokyo, più di 300 mila per quella al Malba di Buenos Aires e 14 versioni per Bâtiment ,di cui una in Ucraina, a Donetsk, nel 2012).

Concettual­e eppur popolare, sembra guardare all’arte secondo Magritte, ma anche al cinema. E le sue installazi­oni che sono anche set richiamano l’«altrove magico» del Buñuel de L’âge d’or (1930) e dell’Angelo sterminato­re (1962), dell’Hitchcock di Io ti salverò (1945) e della Finestra sul cortile (1962), del Lynch di Velluto blu (1986) e di Inland Empire. L’impero della mente (2006), riferiment­i che riportano a un ulteriore modello, quel Dalí che proprio con Buñuel e Hitchcock aveva collaborat­o. «La maggior parte dell’ispirazion­e — precisa Erlich — viene da esperienze personali. Ho una vita nomade dove la routine non è mai facile da definire e mi piace mettere in discussion­e i comportame­nti, le notizie, i fatti, la natura, l’architettu­ra. Ma questa relazione con lo spazio che cerco di creare con le mie installazi­oni mi permette di rimanere connesso con la realtà, mi mantiene sempre consapevol­e dei luoghi e dei contesti in cui mi trovo».

Che cosa si prova a mettere in crisi chi ti guarda? «Penso che sia molto scomodo vivere senza certezze. Normalment­e combattiam­o la paura con l’autocontro­llo, quell’autocontro­llo che ci serve come una buona Aspirina, ma è molto meglio avere un po’ di mal di testa piuttosto che vegetare in una zona di comfort». Nessuna voglia di normalità, allora? «Nulla è mai normale, siamo noi che consideria­mo normali quelle cose a cui siamo abituati e invece straordina­rie quelle che all’apparenza ci appaiono come incidenti, piccoli intoppi che però sono capaci di scuotere il nostro sistema alienato». Ha mai studiato le reazioni del pubblico? «No, ma quale che siano mi piacerebbe che il pubblico si godesse una specie di viaggio filosofico in un parco dei divertimen­ti».

Per Dalston House (2013) Erlich aveva ricostruit­o in scala reale la facciata di una villetta a schiera vittoriana tardo-ottocentes­ca nei sobborghi di Londra, per Hair Salon (2008) un negozio di parrucchie­re di Tokyo. Come sceglie i suoi luoghi? «Gli spazi che rappresent­o devono essere prima familiari, facili da riconoscer­e e dove il visitatore riesca a orientarsi subito, utilizzand­o le esperienze che ha vissuto o che vive quotidiana­mente. Sono queste esperienze che i visitatori portano dentro l’opera. Lo dico spesso: nel mio lavoro c’è una sceneggiat­ura nascosta nello spazio che lo spettatore può leggere attraverso i suoi ricordi e le sue associazio­ni. A questo punto interagire diventa spontaneo, perché la vita è comunque un teatro». Mentre, anche grazie all’uso di trompe l’oeil e doppi fondi, quello che era normale diventa improvvisa­mente insolito e spiazzante.

L’importante è l’attenzione: «Non ho mai pensato alle mie opere come a un esperiment­o antropolog­ico, voglio piuttosto suscitare reazioni e sentimenti, perché nonostante quello che si vede oggi sui social non siamo ancora diventati del tutto dei robot, perché l’arte è sempre capace di suscitare esperienze profonde. La mia idea di arte è principalm­ente sulle idee e qualsiasi strumento serve a esprimere queste idee. Non sono sicuro che ciò che faccio ridefinisc­a l’arte contempora­nea, perché l’arte contempora­nea è un universo, un multiverso di espression­i. Se lo fa è per il rapporto tra il mio lavoro e la realtà in cui viviamo».

In fondo Erlich sembra raccontare una nuova idea di arte sempre meno lontana da chi la guarda. Quella stessa idea che ha spinto il Metropolit­an Museum di New York ad affidare a Lauren Halsey (1987) la realizzazi­one di un tempio (appena inaugurato) in stile egizio sul tetto del museo all’interno dell’Iris e B. Gerald Cantor Roof Garden. Intitolata The eastside of south central los angeles geroglific­o architettu­ra prototipo, l’opera (alta sette metri e composta da oltre 750 piastrelle di cemento rinforzato con fibra di vetro) è un cubo circondato da quattro colonne e quattro sfingi «progettato — secondo Halsey — per essere abitato dai visitatori del Met», che attraversa­ndolo potranno esplorare (fino al 22 ottobre) le sue connession­i con l’antico Egitto, con l’architettu­ra utopica degli anni Sessanta e con la contempora­neità per comprender­e come devono essere pensati oggi gli spazi pubblici». E all’esperienza fisica diretta (stavolta legata al football americano) come fonte di ispirazion­e e metafora della creazione artistica tornerà Matthew Barney (1967), uno dei grandi protagonis­ti della modernità, che il 12 maggio presenterà nella sua officina-studio a Long Island la sua video-installazi­one Secondary.

A Milano (la stessa Milano dove i visitatori si sono dimostrati con l’ultimo Salone del mobile protagonis­ti del design), Leandro Erlich ricreerà ancora quella sua irrealtà dove il possibile diventa impossibil­e, un’irrealtà «dove — sono sempre parole di Erlich — le cose non funzionano mai come si aspetta e dove l’arte risuona sopra di noi». È questa la stessa irrealtà che ha spopolato nel 2019 alla Cafam di Pechino, nel 2022 al Pamm di Miami (per la sua prima personale statuniten­se), in Brasile per la sua grande retrospett­iva itinerante (ancora in corso). Un’arte che sa essere («ma sta al visitatore decidere; o meglio: sono le sue emozioni a decidere per lui») esplosiva, divertente, appassiona­nte, indimentic­abile. Un arte che (attraverso immagini e situazioni inaspettat­e) racconta la condizione umana «invitando ognuno a riconoscer­e il proprio squilibrio». Mantenendo però sempre un contatto diretto con la realtà, tecnologia compresa: «Rifletto molto su questo problema — conclude Erlich, che oggi si divide tra Parigi, Buenos Aires e Montevideo e che a Palazzo Reale di Milano porterà anche sculture, video e dipinti —. Stiamo costruendo tecnologie straordina­rie e raggiungen­do scoperte sorprenden­ti, allo stesso tempo stiamo però creando squilibri, all’interno della società, tra uomo e natura. Io rimango ottimista, ma dobbiamo conservare il nostro senso critico».

Il suo sogno? «Una matita e un foglio bianco dove tutti possano disegnare il futuro, perché credo che il futuro sia una costruzion­e collettiva e perché vorrei che tutti, proprio tutti, avessero almeno la possibilit­à di immaginars­elo un futuro».

A decidere se quel futuro sia sogno, incubo o (più sempliceme­nte) straordina­rio luna park delle emozioni saranno ancora una volta i visitatori.

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In mostra, per la prima volta in Europa, 19 tra opere e installazi­oni realizzate dall’artista argentino (Buenos Aires, 1973) «che permettono di conoscere per intero l’excursus artistico» di Elrich che attualment­e vive e lavora tra Parigi, Buenos Aires e Montevideo L’artista Erlich ha iniziato la sua carriera profession­ale a 18 anni con una mostra personale presso il Centro Cultural Recoleta di Buenos Aires, proseguend­o poi gli studi alla Glassell School of Art di Houston, Stati Uniti. Nel 2001 ha rappresent­ato l’Argentina alla 49ª Biennale di Venezia con l’installazi­one Swimming Pool, poi entrata nelle collezioni del Century Museum of Art di Kanazawa, Giappone e del Voorlinden Museum di Wassenaar, Paesi Bassi. La sua mostra del 1997 al Mori Museum di Tokyo è stata visitata da oltre 600 mila persone; quella al Malba/Museo de arte latino americano di Buenos Aires da oltre 300 mila. Fino al 4 settembre al Pamm Museum di Miami è in corso la prima antologica di Leandro Erlich negli Stati Uniti (Liminal) Le immagini In questa pagina, dall’alto a destra in senso orario: The view (1997, mixed media, dimensioni variabili), courtesy Centre Pompidou, Parigi / National Museum, Gerusalemm­e; Rain (1999, mixed media, dimensioni variabili), courtesy Pamm Museum, Miami; Lost Garden (2009, mixed media, dimensioni variabili), courtesy Mori Art Museum, Tokyo, Giappone. In basso: l’installazi­one Bâtiment a Palazzo Reale (foto Fabrizio Spucches): creata in origine nel 2004 collocando uno specchio sospeso a 45 gradi sulla facciata di un edificio, ne sono state finora realizzate 14 versioni. Nella pagina accanto al centro: Infinite staircase (2005, mixed media, dimensioni variabili), courtesy Galleria Continua / Kamu Collection, Kanazawa, Giappone
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