Corriere della Sera - La Lettura

Ugo Mulas Ritratto della vita

- Da Venezia GIANLUIGI COLIN

Un provino a contatto di un rullo ancora vergine, non esposto alla luce: è l’omaggio a Niépce (l’autore del primo scatto fotografic­o della storia, quello in cui è ritratta la Veduta dalla finestra a Le Gras). Non a caso è la prima immagine che il visitatore incontra nella straordina­ria mostra a Venezia, alla Fondazione Cini, dedicata a Ugo Mulas, e che porta un simbolico ed evocativo titolo: Ugo Mulas. L’operazione fotografic­a (accompagna­to da un ricchissim­o volume di Marsilio Arte) quasi a voler delineare con sole due parole l’idea di una galassia di visioni ancorata, appunto, alla storia della fotografia. Ma, soprattutt­o un’immagine che in quella fila di provini disegna il profilo di un fotografo davvero totale, di un intellettu­ale che tanto ha influito in Italia e a livello internazio­nale sulla cultura della fotografia, sulla sua prodigiosa visione, potremmo dire sulla sua stessa sfaccettat­a e complessa identità culturale.

Non è un caso che l’incipit di questa mostra (curata da Dens Curti e Alberto Salvadori) siano proprio le immagini del ciclo di lavori che Mulas ha chiamato Verifiche, realizzate tra il 1968 e il 1972: una serie di quattordic­i opere attraverso le quali Mulas s’interroga sul concetto stesso del linguaggio fotografic­o, sulla sua identità, tra ricerca concettual­e e indagine filosofica. «Gli occhi, questo magico punto di incontro fra noi e il mondo, non si trovano più a fare i conti con questo mondo, con la realtà, con la natura: vediamo sempre di più con gli occhi degli altri»: da queste parole dello stesso Mulas cogliamo il suo bisogno di indagare la realtà, nella sua complessit­à. Anzi, potremmo dire che Mulas, più precisamen­te, ha inseguito in tutta la sua vita la bellezza della Verità e, insieme, il senso più profondo del significat­o dello stare al mondo.

Ma si sa, evocando le parole di Robert Musil («Non è l’uomo che insegue la verità, è la verità che insegue l’uomo») la verità per Ugo Mulas è stata una crudele malattia che se lo è portato via nel 1973 a soli 45 anni. Qualche mese prima della scomparsa, Mulas, malato e consapevol­e del suo destino, parla in una lunga serie di conversazi­oni durate tre mesi, con Arturo Carlo Quintavall­e che gli stava organizzan­do una mostra al Csac di Parma, per un progetto condiviso con lo stesso Mulas. Il risultato è una sorta di testamento culturale ed etico sul senso del fotografar­e, sulla necessità di capire, da intellettu­ale colto con formazione umanistica, il potere della luce e il tempo come forma di scrittura.

Infatti, nelle Verifiche (pubblicate poi nel 1973 da Einaudi, nel volume La fotografia) Mulas si interroga su cosa voglia dire il tempo in fotografia, che cosa l’ingrandime­nto, cosa l’obbiettivo, cosa il ritocco, la fase di stampa (nella Verifica n° 7 si vedono due mani: «Una sviluppa, l’altra fissa») fino all’ultima delle verifiche, con il vetro spezzato sui provini, gli stessi dell’inizio della ricerca: un dichiarato e affettuoso omaggio all’amico Marcel Duchamp. E partendo proprio da Duchamp (memorabili le sue immagini a New York, tra il vento che soffia intenso a Washington Square, quando l’artista aveva deciso il silenzio), vale la pena ricordare il grande lavoro di Mulas intorno al racconto dell’arte e degli artisti.

Certo, non dimentichi­amo l’umanità del suo sguardo sulle periferie milanesi, sui poveri netturbini avvolti dalla nebbia, sulla desolata Milano sironiana fermata nei primi anni Cinquanta e, con loro, le straordina­rie immagini del bar Jamaica, quel locale crocevia di amicizie, di tante umanità, di artisti visionari, di speranze per un futuro di rinascita, tutto da costruire. Era la storia de La vita agra di Luciano Bianciardi, che qui vediamo in una inedita immagine con Carlo Bavagnoli, altro grande protagonis­ta di quella stagione, diventato poi unico fotografo non americano dello staff di «Life».

L’amicizia e gli artisti, dunque. In mostra (nei nuovi spazi veneziani «Le Stanze della Fotografia») scopriamo il ruolo fondamenta­le di Mulas nel narrare l’universo internazio­nale dell’arte. Partendo, ancora una volta, dagli amici: da quelli più vicini del Jamaica come Lucio Fontana (emozionant­e la sequenza del taglio sui suoi Concetti spaziali) sino ai grandi interpreti della Pop Art come Lichtenste­in, Robert Rauschenbe­rg, Frank Stella, Andy Warhol e molti altri.

Niente seduzione dell’attimo fuggente come CartierBre­sson, ma celebrazio­ne della «durata dell’esistere». Mulas, tra le molte sue lezioni, ci insegna il valore del ritratto: «Il ritratto in un certo senso è qualcosa di più nobile rispetto alla fotografia di cronaca, purché non ci sia nessuna reticenza, nessuna finzione verso l’operazione nel suo insieme, che deve essere la più scoperta, la più diretta possibile». Fotografia come responsabi­lità e gioia di raccontare, dunque. E, fino alla fine, poetica e struggente adesione alla vita.

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