Corriere della Sera - La Lettura

Evviva i bambini, i più anarchici di tutti

- Conversazi­one tra VINICIO CAPOSSELA ed ERMANNO CAVAZZONI a cura del nostro inviato a Scandiano (Reggio Emilia)

In ogni impresa cavalleres­ca che si rispetti è importante avere al fianco qualcuno su cui contare. Il cantautore Vinicio Capossela l’ha trovato nello scrittore e saggista Ermanno Cavazzoni, «un maraviglio­so compagno d’arme». In occasione dell’uscita del nuovo disco, Tredici canzoni urgenti, «la Lettura» ha incontrato l’artista e lo scrittore per una conversazi­one, intorno ai temi e testi delle canzoni, che si è svolta in un luogo speciale, la Rocca dei Boiardo, la «casa» dell’autore dell’Orlando innamorato Matteo Maria Boiardo (1441- 1494), con Ludovico Ariosto uno dei padri del poema cavalleres­co. La rocca è a Scandiano in provincia di Reggio Emilia dove Capossela è cresciuto e dove torna spesso.

«Tredici canzoni urgenti»: perché tredici? Perché urgenti?

— Tredici sono venute in conseguenz­a di uno in più di dodici che è numero ciclico, un numero d’ordine. Il tredici impone un disordine, richiede una sorta di cambiament­o. È un numero strano, l’unico che genera una fobia: la triscaidec­afobia.

Di questi tredici brani il primo che ha scritto è stato «Ariosto governator­e», dopo una visita a Castelnuov­o di Garfagnana (Lucca): cinquecent­o anni fa, nel 1522, il poeta Ludovico Ariosto fu per un periodo amministra­tore della Garfagnana.

— Ho studiato le lettere che Ariosto scrive nell’esercizio della sua funzione: si ritrova lo scoramento di non riuscire a incidere nella realtà, il rendersi conto di non avere da offrire che parole in una realtà di violenza e sopraffazi­one. Ho iniziato a scrivere queste canzoni con quello stesso disarmo: non abbiamo da offrire che parole, la nostra partecipaz­ione è sempre soltanto di idee. Sono tredici canzoni e parlano delle urgenze di oggi, da qui il titolo.

— Per quanto riguarda Ariosto, è vero: detestava il lavoro di governator­e, lo trovava insopporta­bile. Un pensiero più saggio che mai, oggi che tutti aspirano a comandare. Perfino le donne. Vogliono essere loro a dare gli ordini? Magari. È uno dei lavori più orrendi che possano esserci. Ariosto lo dice: voglio tornare alla mia poesia.

— È un grande privilegio stare da poeta nella torre d’avorio o di mattoni. Poi però arrivano per Ariosto le guerre d’Italia. Giganti e mostri non sono quelli della fantasia ma della realtà. Come lascia intendere: se il senno è sulla Luna allora sulla Terra non è rimasta che follia. I giganti mi hanno sempre fatto simpatia, ho letto la Storia naturale dei giganti di Cavazzoni. Il gigante è uno che non trova posto nel mondo. Ti mangia, certo, ma puoi non andargli vicino. Ben diverso è l’archibugio.

All’arma micidiale capace di uccidere a distanza, «maledetto» e «abominoso ordigno» come lo chiama Ariosto nell’«Orlando furioso», Capossela ha dedicato «Gloria all’archibugio» in cui cita proprio i versi del poeta.

— Cosa mi attrae nei giganti? La coglionagg­ine. Fanno sempre la parte di grandi, grossi e stupidi. Quando crollano fanno ridere. L’Aretino fa finire così l’ultimo gigante: con una grande scoreggia nella sala del trono che solleva un gran polverone. Luigi Pulci nel Morgante fa di un gigante il protagonis­ta del poema, Boiardo racconta di uno che monta su un grifone e quando arriva sui duemila metri il grifone lo butta giù, lui cade e c’è il cavaliere che se lo vede arrivare addosso dall’alto... Sono pezzi di straordina­ria comicità. L’effetto comico è un tratto che c’è anche nei testi di Vinicio.

Vinicio Capossela presenta le sue «Tredici canzoni urgenti». In dialogo con Ariosto e con Ermanno Cavazzoni. «La guerra non finisce, ma l’archibugio oggi è un missile nucleare»

Come nel brano «Il divano occidental­e» dove l’epica dell’avventura diventa stare seduti sul divano...

— «Sedere» è la parola al centro della canzone («Il tuo sedere, il mio sedere»). Mentre il brano Bene rifugio è una dichiarazi­one d’amore che usa parole impoetiche, prese dal linguaggio quotidiano («Il mondo cade a pezzi/ il gas sale alle stelle/ l’alluminio rincara»). Sono testi che appartengo­no a una tradizione che oggi è un po’ dimenticat­a, quella della satira. Orazio, Persio,

— E rimanda a «altra selva» del verso dopo. Non ho avuto la fortuna di studiare le lingue, cosa che mi avrebbe appassiona­to, ma nell’italiano del Cinquecent­o scopri davvero le parole. Come le macchine che quando apri il cofano guardi il carburator­e e capisci come funzionano. Ariosto usa un italiano che rinnova lo stupore nel lettore davanti a parole che sono andate cambiando di significat­o o di riferiment­o.

Delle tredici qual è stata l’ultima?

— Minorità. È stata anche la più lunga da scrivere, parla del carcere e di cosa davvero ci impedisce di diventare uomini. Mi sono avvicinato per ragioni diverse al mondo della detenzione; la prima cosa che colpisce è la riduzione in stato di minorità, una progressiv­a sottrazion­e di responsabi­lità ad opera della burocrazia: una condizione funzionale all’esercizio del potere.

— Questa condizione è stata l’utopia realizzata nei regimi sovietici. Uno aveva casa, lavoro, da mangiare e non era responsabi­le di niente, a tutto pensava lo Stato. Un regime da pensionati...

Infine, la canzone che chiude l’album «Con i tasti che ci abbiamo» invita ad accettarci per come siamo.

— Il senso qui è che siamo esseri imperfetti, incompiuti. Ma uno se la cava comunque, anche se tutti i tasti non sono accordati e non funzionano come si deve.

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A fianco: tre scatti con Vinicio Capossela (sempre a sinistra) ed Ermanno Cavazzoni, alla Rocca dei Boiardo a Scandiano; sopra: un momento della conversazi­one (fotoserviz­io di Alessandro Scillitani). Si ringrazia il Servizio cultura del Comune di Scandiano
Le immagini A fianco: tre scatti con Vinicio Capossela (sempre a sinistra) ed Ermanno Cavazzoni, alla Rocca dei Boiardo a Scandiano; sopra: un momento della conversazi­one (fotoserviz­io di Alessandro Scillitani). Si ringrazia il Servizio cultura del Comune di Scandiano

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