Corriere della Sera - La Lettura

Non temete di mostrare i vostri corpi vulnerabil­i

Un monologo, autobiogra­fico, «Sul morire» del padre è tra gli appuntamen­ti più attesi della 51ª Biennale Teatro di Venezia (15 giugno-1° luglio). Il regista: «Restiamo in silenzio perché abbiamo paura. La richiesta di eutanasia di papà creò un’intimità ri

- Di LAURA ZANGARINI

Al centro di Sul morire, monologo del regista e autore svizzero Boris Nikitin, ci sono la malattia del padre, prigionier­o della Sla (Sclerosi laterale amiotrofic­a), e le sue aperte riflession­i sul ricorso al suicidio assistito, espresse in diversi testamenti biologici: poter scegliere quando uscire di scena, per non dover combattere per una vita che non gli sembrava più degna di essere vissuta.

Nikitin collega la storia del coming out del padre con il suo coming out da omosessual­e vent’anni fa. Tutto ciò che gli serve è un palcosceni­co vuoto, una sedia e il testo da lui stesso scritto. In questa cornice scarna, l’autore sviluppa una serata di teatro, radicale nella sua intimità, su cosa significhi osare, rivelarsi al pubblico. Sul morire è un’opera teatrale sullo sguardo degli altri e sull’importanza di rivelare la propria vulnerabil­ità. Alla fine non è stato necessario ricorrere all’eutanasia: il padre di Boris Nikitin è morto a causa della sua malattia.

Quali temi mette al centro della sua ricerca teatrale?

«Tanti, non è facile rispondere. Un osservator­e esterno probabilme­nte direbbe che da 15 anni mi occupo ossessivam­ente di come le realtà e le identità vengono rappresent­ate e, quindi, allo stesso tempo, “costruite”. Un altro tema ricorrente è il rapporto tra documentar­io e propaganda; e l’impossibil­ità di poterli distinguer­e l’uno dall’altra».

Quando ha iniziato a riflettere su questi temi?

«Sono sempre stato affascinat­o da come veniamo formati, modellati, educati, dal modo in cui viene rappresent­ata la realtà. Nel corso della vita, sviluppiam­o visioni personali del mondo e di noi stessi, visioni esse stesse modellate da immagini e narrazioni, da leggi e norme che ci accompagna­no fin dall’inizio. Sembrano permanenti, indispensa­bili. Ma sono finzioni; fondali che appaiono più solidi di quanto non siano in realtà. Gli umani li hanno creati a un certo punto, gli umani possono anche distrugger­li. Forse è per questo che negli ultimi anni mi sono sempre più interessat­o al corpo e alla sua vulnerabil­ità e mortalità. Sono qualcosa di molto concreto e reale. C’è una grande libertà paradossal­e in questo».

Come è arrivato al teatro documentar­io e quali responsabi­lità comporta questa scelta?

«Ho sempre avuto una visione piuttosto scettica della forma documentar­istica, di cui diffido. Una posizione che potrebbe essere intesa come una forma di responsabi­lità. In un manifesto scritto nel 2008 per il mio lavoro Imitation of Life, mi riferisco al documentar­io come alla più alta forma di teatro dell’illusione.

La realtà è qualcosa di molto complesso e il documentar­io tende a semplifica­rla e a ridurla a formule di più facile comprensio­ne. Di qui la tendenza al didascalic­o. Nei miei lavori ho sempre cercato di complicare il documentar­io, di confonderl­o, di incastrarl­o in contraddiz­ioni poetiche. Il teatro per me è uno spazio per giocare con la realtà, e l’autocontra­ddizione è l’unica agenda ideologica che voglio difendere come artista».

Sollecitar­e pensiero e riflession­e critica attraverso l’oscillazio­ne tra finzione e realtà: è questo che le interessa?

«So che sembra un luogo comune, ma cerco di fare cose che interessan­o prima di tutto me stesso. È il privilegio dell’arte. Il teatro è per me un apparato con cui cerco di capire il mondo, giocandoci».

In «Sul morire» sfonda il muro del silenzio: cosa significa rendere pubbliche scelte private?

«Significa rendersi vulnerabil­i. Le persone di solito rimangono in silenzio perché temono le conseguenz­e. Il silenzio è una protezione. Romperlo significa lasciare la propria comfort zone. Mi piace definirla una scommessa: scommetto che il mio interlocut­ore saprà fare fronte a quello che gli dico. In un certo senso punto sulla sua umanità — di cui non so se è provvisto. Il coming out è un atto che eleva l’altra persona. Questo è il momento utopico che mi interessa. Quando mio padre mi ha parlato del suo desiderio di morire, ha cambiato radicalmen­te il nostro rapporto. All’improvviso si è creata un’intimità che prima sarebbe stata impossibil­e nel gioco di ruolo genitore-figlio. È allora che ho capito che la vulnerabil­ità è un’abilità rivoluzion­aria».

Mostrare la propria vulnerabil­ità induce a fare altrettant­o? Qualche spettatore le ha parlato della sua esperienza?

«Sì, in realtà succede molto spesso. Molti spettatori vivono una serata emozionant­e e commovente. Nessuno se lo aspetta davvero, e penso che la maggior parte di loro ne sia felice. Mi piace sempre lo scambio con il pubblico».

Affrontand­o il tema della mortalità, è inevitabil­e pensare alla propria fine...

«La mia morte è per me un pensiero astratto. Ma sono curioso di vedere cosa succederà quando sarà il momento. Spero non accada troppo bruscament­e».

Lei ha anche origini ucraine. Come vive la guerra in corso?

«Cosa posso dire? Per l’Ucraina, questa guerra è una catastrofe. Ma anche per la Russia e l’Europa. Quello che mi preoccupa sin dall’inizio è come — in modo quasi sfacciato — sia stupefacen­te come non solo questo conflitto, ma anche tutte le premonizio­ni degli ultimi anni — per esempio, il risorgere del populismo fascista autoritari­o —, coincidano con la scomparsa degli ultimi testimoni della Seconda guerra mondiale. Questa forma di aggressiva sentimenta­lizzazione narcisisti­ca del patrimonio storico è possibile solo perché coloro che potrebbero raccontare com’era veramente non ci sono più. Sapevamo che questo momento sarebbe arrivato. Ora è qui, ed è reale. Dovremmo farne memoria».

A Venezia porterà un altro suo lavoro, «Hamlet». Anche qui il protagonis­ta mette a nudo sé stesso, il proprio corpo, la propria biografia...

«Per me Hamlet è, con Sul morire, una delle mie creazioni più importanti. In questo lavoro ho potuto condensare tutte le mie idee e visioni dei dieci anni precedenti. La performanc­e è un ritratto della musicista e performer electro-punk Julia*n Meding. Julia*n è una personalit­à molto speciale. L’idea di fare un Amleto con questo interprete è maturata a lungo nella mia testa. È una serata su Julia*n ma allo stesso tempo su Amleto. È una serata sulla realtà che va oltre la realtà. È il documentar­io sulla droga. È un’opera di cui sono orgoglioso ancora oggi, a quasi sette anni dal suo debutto».

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