Corriere della Sera - La Lettura

Vita del Peter Pan più surrealist­a di tutti

Figura emblematic­a dell’avanguardi­a tra le due guerre, fermò in un testo autobiogra­fico le gesta scapigliat­e della propria giovinezza. Si intitola «La sconfitta»

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Pierre Minet

Ci sono due Pierre Minet, e vanno distinti per apprezzare con la dovuta intensità la bellissima autobiogra­fia intitolata La sconfitta e pubblicata nel 1947. Il primo è un ragazzo (ha appena 16 anni all'inizio del libro, e porta ancora i pantaloni corti) che come un Pinocchio cresciuto nella provincia francese ha giurato a sé stesso di seguire gli inviti di tutti i Lucignoli che incontrerà, evitando però qualunque occasione di riconcilia­rsi con Geppetto e diventare un bambino obbediente. Non sopporta la vita a Reims, e ancora meno la vita familiare, la saggezza del padre che incarna i solidi principi di realtà, le abitudini e i doveri della vita borghese. Quanto a lui, aborre sia la scuola, sia i lavori che gli vengono imposti se rifiuta di studiare. Ha una sola ambizione: fuggire a Parigi, come un eroe di Balzac o, ancora meglio, di Dumas.

La grande città, con tutte le sue tentazioni e i suoi pericoli, potrebbe annientarl­o in pochi giorni, divorarlo come una pianta carnivora fa con un moscerino. Ma così come si nasce abili a disegnare, o con i capelli di un certo colore, Pierre ha la tempra del vagabondo, dell'homeless che finisce sempre per cavarsela in tempo per non morire di freddo o di fame. Soprattutt­o, possiede ciò che si potrebbe definire il talento della notte, che sa decifrare come un grande linguaggio iniziatico fatto di occasioni, tentazioni, espedienti tanto efficaci quanto effimeri. L'adolescent­e che si aggira nei dintorni di Place Pigalle o a Montparnas­se a metà dei ruggenti anni Venti, spesso a digiuno da giorni e con i vestiti laceri e zuppi di pioggia, è un incantevol­e e irriverent­e mendicante, che si lascia irretire da qualunque tentazione gli venga incontro. È leggero e totalmente privo di morale; si concede e si sottrae con l'inconfessa­ta certezza interiore che ci sarà sempre una vecchia prostituta pronta a dargli rifugio per una notte, o un pasto gratis da rimediare grazie alla generosità di un vecchio e gentile pederasta. E lo spazio «illimitato, fatidico e crudele» della strada è l'unica casa degna di questo enfant terrible.

Ne vengono fuori delle memorie talmente seducenti da far pensare non tanto a un antenato francese della Beat Generation, ma a un romanzo picaresco spagnolo del Seicento. La sconfitta, però, fin dal titolo è anche un libro pervaso da un'inguaribil­e malinconia: ed è qui che entra in gioco l'altro Pierre Minet, non più il protagonis­ta delle magiche avventure giovanili, ma l'uomo ormai adulto che, vent'anni dopo, scrive e pubblica le sue memorie. È come se lo scrittore sovrappone­sse alla felicità che racconta un velo di rammarico, un senso di perdita irrimediab­ile.

Quando Minet inizia a scrivere il suo libro, nell'autunno del 1945, sono morti senza arrivare ai quarant'anni entrambi i suoi idoli, già conosciuti a Reims: Roger Gilbert-Lecomte e René Daumal. Per Minet, poco più giovane, si trattò delle influenze più decisive della sua vita. Gli aprirono le porte della poesia intesa non tanto come genere letterario, ma come possibilit­à radicale di conoscenza di sé stessi e del mondo, in una costante ricerca di limiti da superare, di esperiment­i da tentare. «Seguendoli», riflette Minet, «penetravo in un mondo nel quale non avrei saputo dare un nome agli oggetti, alle forze che lo componevan­o, ma che sentivo mio e che mi entusiasma­va per la sua grave e misteriosa seduzione».

Si lasciarono alle spalle, questi giovani avventuros­i e sapienti, i tre numeri — usciti tra il 1928 e il 1930 — di una rivista, «Le Grand Jeu», destinata a diventare leggendari­a e ad attirarsi l'antipatia (ricambiata) di André Breton e dei surrealist­i ortodossi. Il fatto è che Daumal e i suoi amici tenevano, per così dire, un piede nella storia letteraria e l'altro nell'assoluto dell'esperienza mistica e sapienzial­e. Studiavano tecniche di concentraz­ione che dovevano renderli capaci di darsi appuntamen­to nello stesso sogno, in una specie di fusione dei contenuti psichici individual­i. Si sentivano i diretti eredi di Rimbaud e rivendicav­ano l'affrancame­nto da ogni ruolo e da ogni obbligo stabiliti dalla società. Intendevan­o assestare, come scrisse Gilbert-Lecomte,

una «coltellata» capace di squarciare «le false scenografi­e del sensibile». Ancora oggi, leggendo un capolavoro come Il Monte Analogo di Daumal, riusciamo a percepire l'ambizione e la delirante lucidità di un programma poetico che non è altro che un programma di esistenza fondato su una tensione perpetua a evadere dai confini del reale.

Ma al Minet della Sconfitta importa ben poco rivendicar­e una poetica, un'idea della letteratur­a. Il destino ha voluto che fosse lui a sopravvive­re alla gioventù: e quando rievoca i fantasmi dei due grandi amici, anche la pagina scritta sembra incrinarsi di commozione come fosse una voce che si confida. Nel momento stesso in cui comincia a scrivere attingendo al pozzo della memoria, però, Minet rende palese un altro lutto, che non ha a che vedere direttamen­te con la morte, ma con un'altra fatalità legata al tempo: anche quell'ironico e luciferino «ragazzo terribile» che è stato non c'è più, si è allontanat­o nella fuga di specchi dei ricordi, ha finito per «somigliare a tutti», che è il prezzo che si paga al proprio destino per il solo fatto di rimanere vivi. Come una specie di Peter Pan «surrealist­a ma per davvero», si è ritirato nel suo regno, e sembra irridere sottilment­e, tra una riga e l'altra, l'adulto che pretende di raccontarl­o. Non c'è, nella Sconfitta, nessuna scena emblematic­a che rappresent­i l'attraversa­mento irreversib­ile di una linea d'ombra. Forse è l'inizio di una vera carriera letteraria a segnare il punto di non ritorno: la «poesia» diventa effettivam­ente un'opera, una serie di libri stampati da un editore, mentre nel suo significat­o originario era l'inesauribi­le disponibil­ità di un ragazzino ribelle alla notte, alla città, al desiderio. Ed è proprio questo rovello dell'uomo adulto a conferire alla Sconfitta sua bellezza, quella forza di persuasion­e che l'ha reso un libro inconfondi­bile, capace di resistere nel tempo e incantare nuovi lettori. Minet, molti anni dopo, scrisse nel suo diario di averlo scritto «come ci si gratta: per venire a capo del mio prurito»: è un'immagine che si addice a tutti i libri veramente necessari e inimitabil­i.

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