Corriere della Sera - La Lettura

Il «rinascimen­to» dell’arte alluvionat­a

«La Lettura» è stata in Romagna per raccontare i danni e la ripresa di musei, bibliotech­e, eccellenze artigiane: il Classis di Ravenna che ha accolto gli sfollati (e i loro animali) accanto ai reperti archeologi­ci, le aziende di surgelati che hanno congel

- Stefano Bucci

Nel silenzio della biblioteca del Mic, il Museo internazio­nale delle ceramiche di Faenza, la direttrice Claudia Casali pensa che bisogna fare presto: lavare via il fango dai vasi, dai piatti, dalle ciotole; ricomporre quello che è stato rovinato dall’acqua; occuparsi dei «suoi» artigiani ceramisti che hanno perso case, macchine e magazzini come Simona Serra, due volte alluvionat­a. O come i Pantou Ceramics, Ilaria Biffara e Giampaolo Santoddì, arrivati qui dalla Sicilia di Caltagiron­e per inseguire il sogno di una bottega tutta loro, che in un colpo solo hanno perduto casa e laboratori­o e che adesso sono ospitati da un’anziana coinquilin­a bisognosa di compagnia.

Nelle stanze dello zuccherifi­cio dismesso diventato museo, il Classis di Ravenna, la direttrice Francesca Masi ricorda con emozione la telefonata del sindaco nel cuore della notte di quel martedì 16 maggio («Quando l’acqua del Ronco era arrivata a 45 centimetri dal ponte») e quei bigliettin­i con scritto «Non toccare» che gli sfollati (700 in due giorni più 200 animali domestici) avevano poggiato sui reperti romani, gotici, bizantini vicino ai quali hanno sistemato le brandine da spiaggia su cui hanno trascorso la notte.

storia, tante storie divise da una manciata di chilometri (quindici tra Faenza e Forlì, una trentina tra Forlì e Ravenna, altrettant­i tra Faenza e Ravenna): sono le storie dell’alluvione in Emilia-Romagna, un rosario di eventi che tragicamen­te si snoda dal 2 al 17 maggio. Come quelle che «racconta» la cantina-magazzino del Museo Carlo Zauli, a Faenza, dove «la Lettura» è arrivata lunedì 29 maggio. Qui la memoria, la rabbia, la speranza sembrano ora confonders­i in una massa informe rossoscuro che assomiglia a un’installazi­one di Kapoor (del genere Shooting into the corner) nell’illusione che quella stessa massa informe possa trasformar­si nella materia per il sogno inseguito da Matteo e Monica Zauli (figli di Carlo, il fondatore), il sogno di nuove ceramiche.

Altre storie. Al primo piano della casa-laboratori­o di Guerrino Tramonti la stessa miscela di memoria, rabbia e speranza ha scatenato in Marco (figlio di Guerrino) e nella moglie Milena l’idea per una mostra sull’arte ferita da questa alluvione, una mostra che un giorno accoglierà tutte le opere (in porcellana, in maiolica, dipinte a olio) che dalla furia dell’acqua non sono riuscite a salvarsi. Rievocando i vecchi ricordi dell’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966 (la direttrice del Museo della

Scienza, Maria Luisa Bonelli, che in pantofole sale sui tetti per portare in salvo lenti e cannocchia­li di Galileo), Gianfranco Brunelli, direttore del Museo Civico San Domenico di Forlì, rievoca la sua lunga notte d’attesa, ancora quella di martedì 16 maggio: «L’acqua è arrivata vicinissim­a, appena a una cinquantin­a di metri, poi si è fermata, riversando­si nel garage sotterrane­o». A ricordare l’attesa di Brunelli e il pericolo appena scampato restano alcuni sacchi di sabbia appoggiati alle grandi porte-finestre che fanno da ingresso al museo; come lo stupefacen­te abito alla Maria Antonietta di John Galliano, illeso, che sotto le navate della Chiesa di San Domenico è tornato ad accogliere in queste ore i visitatori della mostra L’arte della moda, simbolo di un’arte che resiste.

Una storia, tante storie che raccontano come l’arte possa cambiare la storia. O, almeno, provarci. Perché quello stilato da Mauro Felicori, assessore alla Cultura e al Paesaggio della Regione Emilia-Romagna, è un bollettino di guerra che rende conto solo in parte degli effetti della grande alluvione di maggio, un bollettino costellato di parole che evocano immediatam­ente situaUna

zioni complesse, spesso tragiche: danni, allagament­i, frane, infiltrazi­oni, crolli, smottament­i. In quel bollettino si ritrovano oltre ottanta Comuni divisi tra le province considerat­e «in emergenza» (Ravenna, Forlì-Cesena e, limitatame­nte, Bologna, Rimini e, nelle Marche, Pesaro-Urbino) con tredici musei, sette beni architetto­nici, quindici tra giardini storici e parchi, venti tra bibliotech­e e archivi, sette cimiteri, sette sale cinematogr­afiche.

Scorrere quel bollettino — come ha fatto «la Lettura» — significa fare i conti con la storia dell’Emilia-Romagna, la storia che raccontano i musei: il Museo delle Cappuccine di Bagnacaval­lo; il Museo delle Saline di Cervia; il Museo di ecologia Mirco Bravaccini di Meldola (con il suo centro di allevament­o della fauna minore oggi rivestito da una coperta di fango); la Casa dell’Upupa dell’artista e architetto Ilario Fioravanti in località Sorrivoli a Roncofredd­o (inagibile per le frane che hanno isolato il paese); Villa Spada a Bologna; il Museo etnografic­o di Santarcang­elo; il capanno Garibaldi di Ravenna; la casa rurale di Borgo Tossignano. È la stessa storia nascosta nelle architettu­re e nei tesori di abbazie, chiese, ville, giardini, teatri: l’abbazia di Santa Maria del Monte a Cesena; San Francesco a Faenza; Villa la Collina a Tredozio; il parco delle Acque Minerali di Imola; il Teatro Rossini di Lugo; Villa Torre di Ozzano; Palazzo Hercolani a Castel Maggiore. È la stessa storia scandita dai libri, dai manoscritt­i, dai documenti di bibliotech­e e archivi: Forlì (quelli del Comune e del Seminario vescovile) e Faenza (la Manfredian­a). È la stessa storia scolpita nelle statue e nei monumenti dei cimiteri: Ravenna, Cotignola, Gatteo e il Cimitero monumental­e dell’Osservanza di Faenza con i suoi capolavori di Lucio Fontana (la Cappella Melandri) e Domenico Rambelli (le tombe di Antonio Berti e di Rosa Laghi), uno dei più belli della regione, e con il suo muro perimetral­e crollato quando l’argine del Lamone ha ceduto (allagati a loro volta la chiesa e la sacrestia).

Una storia, tante storie che l’alluvione avrebbe potuto cancellare e che affidano il loro futuro all’impegno (economico) annunciato dal ministero della Cultura: 4 milioni, di cui 2,5 già stanziati, a cui se ne aggiungera­nno altri sei. E, naturalmen­te, a quello (fisico) dei cittadini, quelli colpiti accanto a quelli «risparmiat­i», e dei tanti volontari arrivati da tutta Italia (e non solo). Forse proprio per questa necessità di essere più concreti che sognatori (il primo impegno è spalare, rimuovere il fango, svuotare le cantine) in molti preferisco­no oggi non parlare più di «angeli del fango» (abusata definizion­e coniata in occasione dell’alluvione del 1966) perché «questi ragazzi sono molto più concreti degli angeli che stanno in cielo e hanno una gran voglia di fare», una concretezz­a che sembra smentire certi stereotipi sulle nuove generazion­i. Una storia, tante storie con le quali «la Lettura» ha voluto raccontare l’arte ferita dall’alluvione.

Ravenna. Il museo è un hub

Il Classis non è che l’ennesima trasformaz­ione di un frammento di archeologi­a industrial­e dei primi del Novecento, nato su quello che restava di uno zuccherifi­cio dove avevano lavorato centinaia di operai, chiuso a inizio anni Sessanta. E che nel 2018 era diventato il Museo della Città e del Territorio, il Classis, appunto: 2.800 metri quadrati al centro di un parco di un ettaro e mezzo.

L’ultima mutazione, forzata dall’alluvione, da museo in hub di prima accoglienz­a, potrebbe così apparire inevitabil­e. «Il sindaco mi ha chiamato nel cuore della notte per dirmi che c’era un serio pericolo di esondazion­e per il Ronco e il Montone e che per questo motivo avrebbe dovuto sfollare un intero quartiere. Poi mi ha chiesto che cosa ne pensassi di aprire il museo alle persone che stava facendo evacuare — racconta oggi Francesca Masi, direttrice della Fondazione RavennAnti­ca e del Classis —. Non ho esitato un momento: ho detto subito sì. D’altra parte è scritto nel destino e nella storia dei musei: sono da sempre luoghi aperti al mondo, sono realtà che cambiano con la società». Così, in una notte, il Classis (alle porte di Ravenna e a poche centinaia di metri dalla Basilica di Sant’Apollinare in Classe) si è trasformat­o in un luogo di soccorso e ristoro con tanto di distribuzi­one di pasti caldi, «in una struttura aperta al pubblico — come lo definisce ancora Masi —, in un luogo per la comunità che la comunità deve sentire e frequentar­e».

cinque del mattino, quando l’hub è stato aperto, il numero di persone accolte è cresciuto progressiv­amente via via che si estendeva il numero delle zone evacuate, passando da trenta a trecento a oltre settecento.

Più volte la direttrice Masi ritorna sul concetto di museo come luogo di comunità, un luogo reso particolar­mente sicuro (durante l’alluvione) perché più in alto rispetto a Ravenna (l’obiettivo principale è stato a un certo punto salvare il centro della città e i suoi tesori d’arte e cultura) e di trovarsi molto vicino alle arterie che portavano fuori «nel caso il livello dell’acqua fosse ancora cresciuto». L’alluvione ha così reso più concreto il legame tra il Classis e i suoi cittadini. Anche grazie alle 700 brandine (metà delle quali arrivate «dai nostri amici degli stabilimen­ti balneari») trasformat­e in letti d’emergenza montati tra gli oltre 600 reperti archeologi­ci (anfore, ceramiche, monete, statue e mosaici d’età etrusca, romana, imperiale, bizantina, tardo-medievale) riuniti in una collezione nata per raccontare la storia di Ravenna.

«Mentre l’acqua saliva — racconta Masi — abbiamo continuato con le visite guidate per gli adulti e con i laboratori didattici per i bambini: è stato un modo per allentare la tensione e la preoccupaz­ione». Martedì 23 maggio, quando l’emergenza esondazion­e è finita, il museo è stato subito riaperto: «Volevamo che il rapporto profondo che si era stabilito non andasse perduto, che si mantenesse vivo, perché è stata una cosa troppo bella». Oltretutto, precisa la direttrice, «non c’è stato un solo danno, un solo graffio agli oggetti della collezione». Seguendo questa stessa emozione è poi nato il «Coordiname­nto Classis» che raccoglie le associazio­ni (dagli Ultras Ravenna agli Arcigay, dalla Polizia di Stato agli Scout alla Protezione civile), gli amministra­tori, gli imprendito­ri, i cittadini (oltre allo staff del museo) che hanno gestito l’emergenza e che ora ha trovato una sua sede definitiva. È un altro piccolo passo verso il futuro che l’alluvione, nonostante tutto, ha finito per accelerare: «Stavamo già pensando di aprire il museo agli animali, ne dovevamo discutere proprio nei giorni dell’alluvione — spiega Francesca Masi — ma poi con i 700 sfollati sono arrivati anche i loro 200 animali domestici, compreso un pappagallo; è stato molto più facile decidere». E da martedì 23 maggio, il Classis è uno dei primi musei d’Italia con ingresso libero anche per gli animali («Non abbiamo ancora stabilito il numero, per ora ci basiamo sul buonsenso»).

Faenza e le case-museo

Sueharu Fukami, uno dei grandi ceramisti viventi (giapponese, classe 1947), uno dei tanti grandi che avevano lavorato con Carlo Zauli (1926-2002), aveva regalato la scultura nel 2018 ai figli di Carlo — Matteo e Monica — per celebrare i 18 anni della casa-museo. A una condizione: «Se si dovesse anche solo scheggiare, dovete immediatam­ente distrugger­la, buttarla via». Eppure Oltre l’orizzonte, nonostante l’acqua l’abbia offesa in profondità, privandola di un’intera estremità, è ancora qui, appoggiata su quello che era stato un tempo il tavolo da lavoro del laboratori­o che Matteo e Monica hanno creato e portato avanti con passione nel nome del padre: «AbDalle

biamo scritto a Fukami, non ci ha ancora risposto, magari cambierà idea, magari la salveremo a futura memoria dell’alluvione, magari ce ne vorrà fare un’altra».

Il destino dei musei, delle botteghe, degli studi d’artista, dei laboratori che lavorano con la ceramica (una ventina solo nell’area cittadina) sono una delle spine più dolorose lasciate dall’alluvione nel fianco di Faenza. Fondamenta­le, nel post-emergenza, è stato e sarà ancora il ruolo del Mic, il museo che ha affidato ai suoi restaurato­ri, agli studenti della scuola di restauro e ai volontari, il difficile compito di recuperare il recuperabi­le (oltre che di raccoglier­e fondi).

«Abbiamo svuotato le cantine, il magazzino — dice Matteo Zauli — ma sembra un lavoro che non finisce mai, cerco di pensare al futuro, ma non è facile» (nonostante qui come in tutte le realtà critiche dell’Emilia-Romagna ci siano sempre tanti, tantissimi volontari). Perché, certo, non sembra facile immaginare che la distesa di fango e detriti racchiusa tra le mura delle case fosse stata fino a poco tempo fa un piccolo giardino verde (curata da Monica). Così come non è semplice pensare che al posto di quella massa abnorme rossastra che occupa la cantina ci fosse stato fino a pochi giorni fa un magazzino di scaffali ordinati pieni di polveri e di miscele per colorare la ceramica, polveri e cornici anche «antiche» che Carlo aveva raccolto e conservato per tutta una vita. Il rosso cupo di quella enorme «scultura» quasi nera e l’odore pungente che riempie il sottosuolo sono le conseguenz­e dirette dell’ossido di ferro (una delle composizio­ni usate da Zauli), che l’acqua ha fatto amalgamare con il fango.

Come si fa a non perdersi d’animo? «Non lo so nemmeno io — confessa Matteo —. Dopo la prima esondazion­e avevo anche pensato che non sarebbe stato matematica­mente possibile... invece è successo». La forza dell’acqua ha spostato forni gigantesch­i, ha stravolto la geografia di questi luoghi familiari dove (per scelta del museo) hanno negli anni imparato tantissimi giovani, molti dei quali sono ora ritornati per dare una mano. Il fango che l’acqua ha trasportat­o qui ha cancellato (almeno fino a quando il fango stesso non viene tolto con la sistola, quando si riesce) il Bianco Zauli, smalto per grès ad alta temperatur­a, unico nel suo genere e irriproduc­ibile, capace di assumere infinite sfumature, passando poi a tutte le tonalità dei grigi sino ad assumere toni vicini al nero e al rosso.

Ma la speranza si ostina a restare viva: «Sarebbe bello che, una volta asciugata, quella massa di terra e colore potesse essere utilizzata dagli artisti per fare qualcosa nel segno di Carlo Zauli» (magari Sueharu Fukami potrebbe pensare a un nuovo Oltre l’orizzonte).

Superato il Ponte della Memoria che attraversa il Lamone, nella zona più colpita di Faenza (la stessa dove si trova il cimitero monumental­e dell’Osservanza), un edificio anni Cinquanta parla invece, attraverso le voci del figlio Marco e della moglie Milena, di Guerrino Tramonti (1915-1992), recente protagonis­ta di una monografic­a (Guerrino Tramonti. L’infinito che abbraccia i colori )al Pirellone di Milano e (con la sua Donna con pesci, 1960) della mostra Italia Cinquanta al Palazzo Attems Petzen«Non stein di Gorizia: «Se non ci fossero stati i ragazzi della scuola di restauro, se non ci fossero stati i volontari, non so come avremmo fatto — confessa Milena —. A un certo punto, quando ho visto che non passava nessuno, mi sono messa in strada a chiedere aiuto per svuotare il piano terra, quello dove c’erano le vetrine con gli scaffali piene delle ceramiche di mio suocero». È successo qualcosa? «Si è fermato un gruppo di Vigili del Fuoco della Val di Non. Mi hanno detto: “Noi possiamo solo ora”; ma poi sono rimasti qui tutta la notte». Dai volontari, dai ragazzi che sono stati vicini a loro durante questi giorni Marco e Milena hanno imparato altro, umanamente e tecnicamen­te: «Per cercare i piatti, bisogna affondare il più possibile le mani dentro il fango, ma non si può tirarli subito fuori, perché altrimenti il peso della terra bagnata li può rompere».

E ora? «Va meglio. Con quello che non abbiamo potuto recuperare, perché troppo rovinato dall’acqua e dal fango, abbiamo deciso di farci una mostra sull’arte perduta» (per ora i quadri sono finiti anche nella vasca da bagno dell’appartamen­to al primo piano che è stato fino alla morte la casa di Guerrino). Stringendo la loro gatta siamese («L’unica a rimanere tranquilla»), Marco e Milena sembrano voler lanciare un altro segnale: «È stata una tragedia, ma poi penso che il nostro vicino, il tabaccaio, ha perso davvero tutto, la casa e il negozio, tutto».

Forlì. I libri nel congelator­e

«Noi siamo i salvati, ora dobbiamo occuparci dei sommersi». Il direttore del Museo San Domenico di Forlì Gianfranco Brunelli non teme di citare Primo Levi per raccontare quello che è successo («L’alluvione si è fermata a una cinquantin­a di metri dal museo, eravamo già pronti, per fortuna tanta acqua è finita nel parcheggio sotterrane­o che avevamo fatto sgomberare nel pomeriggio») e quello che sarà. Il museo infatti ha scelto da subito di riaprire al pubblico la sua mostra L’arte della moda (sul sito c’è l’annuncio che «l’esposizion­e è nuovamente raggiungib­ile da tutte le vie d’accesso: ferroviari­e, autostrada­li e stradali» con le relative indicazion­i, rotonde da imboccare comprese).

Arrivando dalla periferia della città (ancora avvolta da una costante nuvola di polvere, dove le strade sono spesso inagibili secondo un copione identico a Forlì come a Faenza) fa quasi male immaginare quello che sarebbe potuto accadere se l’acqua avesse raggiunto il sontuoso apparato di crinoline del Marquise Masquée di John Galliano per Christian Dior o i ritratti di Pompeo Batoni che nella grande sala centrale al piano terreno aprono il percorso della mostra: «Siamo stati in attesa dentro il museo almeno fino alle undici della sera, l’acqua continuava a salire, poi per fortuna s’è fermata». Passata l’emergenza, è arrivato subito (in una sequenza che l’alluvione dell’Emilia-Romagna ha continuame­nte riproposto) il momento di mettersi in moto: «I salvati si sono messi al servizio di chi dall’acqua era stato sommerso. Era un nostro obbligo, come museo e come fondazione, un obbligo morale e civile. E una volta salvata l’arte, abbiamo iniziato a raccoglier­e, e continuiam­o a farlo, gli aiuti di prima necessità come cibo, abiti, medicine».

abbiamo fatto niente di speciale. Perché non siamo solo uno spazio per l’arte, dobbiamo essere un riferiment­o per la società», conclude Brunelli.

Quando poi dalla Biblioteca del Seminario è arrivato l’allarme per le cinquecent­ine ele seicentine ricoperte dall’acqua, Gianfranco Brunelli ha escogitato una soluzione che in qualche modo contraddic­e la procedura utilizzata in occasione dell’alluvione di Firenze, quando per salvare il patrimonio librario della Nazionale vennero utilizzati essiccatoi e forni ad aria. E ha pensato di portare i libri nei magazzini a 25 gradi sottozero delle aziende di surgelati presenti in Romagna (come Orogel e Bofrost), contenitor­i dove vengono abitualmen­te stoccate la frutta e la verdura. I volumi sono stati così sottoposti a una «cura del freddo» per evitare, secondo i tecnici, «ai materiali documentar­i risalenti in alcuni casi al XVI e XVII secolo provenient­i dagli archivi» di venire aggrediti e distrutti dai funghi che facilmente potrebbero invece attaccare la carta, il cuoio e la pergamena.

Della stessa idea dell’arte come un «tassello essenziale» del vivere sociale sono conseguenz­a le indicazion­i sulla «messa in sicurezza di opere d’arte e oggetti di valore culturale» dall’unità di crisi del ministero della Cultura, dedicate non tanto alle cinquecent­ine, alle seicentine, ai manoscritt­i preziosi, quanto alle bibliotech­e di casa, delle scuole, delle università. Indicazion­i che partono con un’indicazion­e generale molto chiara: «In nessun caso deve essere messa a repentagli­o l’incolumità delle persone per la salvaguard­ia delle opere d’arte». Il decalogo prosegue così: «È importante assicurars­i di chiudere il gas e staccare la corrente elettrica ed evitare comunque di venire a contatto con la corrente elettrica se si hanno mani e piedi bagnati». E ancora: bisogna individuar­e un sito di ricovero, portare l’umidità dell’ambiente sotto il 40%, mantenere la temperatur­a sotto i 19 gradi, asciugare o congelare i libri e il materiale cartaceo entro 72 ore, inserire fogli di carta assorbente ogni 15-20 pagine. Infine: occorre dare priorità a beni/opere costituiti da materiali più soggetti a danneggiam­ento in caso di alluvione come: legno, carta, fotografie, dipinti su tela e su tavola, oggetti realizzati in materiali organici, ceramica, vetro, ricoverand­o le opere in luogo asciutto per lasciarle asciugare senza rimuovere il fango». Un decalogo che parla di una cultura, quella dei libri, vissuta come quotidiani­tà non soltanto nei musei.

Il sogno del Mic

«Questa nostra riapertura ha avuto un senso di ritorno a una normalità per quanto ancora lontana», spiega la direttrice Claudia Casali del Mic, Museo internazio­nale delle ceramiche di Faenza, che ospita la più importante raccolta al mondo: un polo culturale dedicato a questa materia, un patrimonio racchiuso in oltre 60 mila opere che vanno dal 4000 a.C. ai giorni nostri. Un museo che ospita un laboratori­o di restauro, una biblioteca, archivi fotografic­i e documentar­i, un laboratori­o didattico. E che dal 1938, ogni due anni, organizza il Premio Faenza, concorso dedicato alle espression­i d’arte contempora­nea realizzate con la ceramica. E che, sempre ogni due anni, coordina «Argillà Italia», mostra mercato dell’artigianat­o artistico.

Guardando al futuro Casali parla con entusiasmo della prossima edizione del Premio Faenza (la prima in presenza dopo la pandemia) in programma dal primo luglio: «Ce la faremo, anche perché quasi tutti i partecipan­ti hanno confermato la loro presenza». In mostra 70 opere, per lo più installazi­oni, realizzate da artisti già affermati (over 35) e giovani talenti (under 35), provenient­i da tutto il mondo che hanno scelto la ceramica come mezzo per confrontar­si con tematiche sociali, ambientali, ma anche con la propria tradizione e con l’argilla per recuperare le radici o riflettere sul territorio.

Ancora una volta, tanto per ribadire l’idea di un museo attivament­e inserito nel tessuto sociale, subito la direttrice precisa: «Il museo deve rimanere sempre un supporto positivo alla comunità,un punto di riferiment­o. Per questo, prima di tutto bisogna pensare ai moltissimi laboratori di ceramica, botteghe e studi di artisti che hanno subito gravissimi danni a causa dell’alluvione». Come il Museo Ceramico Ferniani (che ha avuto danni al giardino e alla ghiacciaia) o lo Studio Ivo Sassi (con il piano terra e la cantina allagati con gravi danni a prototipi e stucchi, altro bersaglio debole di questa alluvione, con una storia frutto di sessant’anni di attività di Ivo Sassi). O come la Bottega d’arte fondata nel 1928 da Riccardo Gatti che ha lavorato con Matta, Burri, Baj, Accardi, Mondino, Fioroni, Paladino, Ontani... e che proprio nei giorni dell’alluvione stava catalogand­o i disegni, gli schizzi, le opere su carta nel deposito del rione di Borgo Durbecco andato completame­nte sott’acqua (mentre il centro di Faenza, dove si trovano il Mic e la sede storica della Bottega a poche centinaia di metri di distanza, è rimasta indenne).

Il Mic ha messo a loro disposizio­ne Casa Muky Matteucci e ha avviato una raccolta di fondi per ricostruir­e le sale alluvionat­e della Biblioteca Manfredian­a (a cominciare da quella dedicata ai bambini più piccoli andata completame­nte distrutta). Lo stesso museo ha riaperto la biblioteca agli studiosi e la sala di lettura ai cittadini di Faenza orfani della Manfredian­a. Un altro modo perché, mentre i laboratori di restauro si trasformav­ano giorno dopo giorno in classi di studio (con gli insegnanti che ripulivano e ricomponev­ano le ceramiche insieme con gli studenti), il sogno del museo vicino alla società possa continuare. Nonostante l’alluvione.

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L’interno del Classis, il Museo della Città e del Territorio di Ravenna, trasformat­o in hub di prima assistenza durante l’alluvione. All’interno del museo sono stati ospitati oltre 700 sfollati e 200 animali domestici. Il Classis è stato riaperto al pubblico, come molti musei dell’Emilia-Romagna, martedì 23 maggio
STEFANO BUCCI dal nostro inviato a Faenza (Ravenna), Forlì e Ravenna Le immagini L’interno del Classis, il Museo della Città e del Territorio di Ravenna, trasformat­o in hub di prima assistenza durante l’alluvione. All’interno del museo sono stati ospitati oltre 700 sfollati e 200 animali domestici. Il Classis è stato riaperto al pubblico, come molti musei dell’Emilia-Romagna, martedì 23 maggio
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1 I depositi dell’Archivio comunale di Forlì dopo l’esondazion­e del fiume Montone; 2 I sacchi di sabbia davanti a una delle vetrate esterne del Museo San Domenico di Forlì: l’acqua si è poi fermata a soli cinquanta metri dal museo; 3 I dipinti danneggiat­i e irrecupera­bili nella vasca da bagno della casa-museo di Guerrino Tramonti a Faenza; 4 Gli effetti dell’alluvione nella Chiesa di San Girolamo dell’Osservanza, la chiesa del Cimitero monumental­e di Faenza; 5 La cantina e il magazzino della casamuseo Carlo Zauli a Faenza; 6 Insegnanti, studenti e (di spalle) la direttrice Claudia Casali al lavoro nel laboratori­o di restauro del Mic di Faenza; 7 Quel che resta della sezione dedicata ai bambini della Biblioteca Manfredian­a di Faenza
Le immagini 1 I depositi dell’Archivio comunale di Forlì dopo l’esondazion­e del fiume Montone; 2 I sacchi di sabbia davanti a una delle vetrate esterne del Museo San Domenico di Forlì: l’acqua si è poi fermata a soli cinquanta metri dal museo; 3 I dipinti danneggiat­i e irrecupera­bili nella vasca da bagno della casa-museo di Guerrino Tramonti a Faenza; 4 Gli effetti dell’alluvione nella Chiesa di San Girolamo dell’Osservanza, la chiesa del Cimitero monumental­e di Faenza; 5 La cantina e il magazzino della casamuseo Carlo Zauli a Faenza; 6 Insegnanti, studenti e (di spalle) la direttrice Claudia Casali al lavoro nel laboratori­o di restauro del Mic di Faenza; 7 Quel che resta della sezione dedicata ai bambini della Biblioteca Manfredian­a di Faenza
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