Corriere della Sera - La Lettura
Rivoluzione borghese Il manifesto di Truppi
Il cantautore ha scritto un album personalissimo, che è anche una chiamata alla sua generazione, in cui riflette sull’idea di comunità, di privilegio, sul non fare abbastanza: un senso di colpa che ha condiviso con lo scrittore Paolo Giordano
Cercare un senso, «che non riguardi solo un percorso individuale, ma che si allarghi a tutta l’umanità». Dare un contributo «al salto che dobbiamo compiere nell’abbandonare questa organizzazione della società». E poi considerarsi privilegiati perché liberi, non ridotti in schiavitù. E riflettere sulla morte, sulle amicizie che si frantumano per colpa dei soldi, e porsi domande, tante, per finire con il chiedersi: «Era questo il Regno dei Cieli che aspettavamo?». Diario, flusso di coscienza, fotografia di una generazione che non ha vissuto la stagione delle battaglie sociali tanto che «a volte considero di frequentare la chiesa vicino a casa solo per recuperare quel tipo di dimensione». Tutto questo ragionare, sentire, immaginare è stato messo in musica e parole da Giovanni Truppi, cantautore del particolare e dell’universale. Con il suo nuovo lavoro, Infinite possibilità per esseri finiti — disco, piattaforma web (infinitepossibilita.com), podcast, spazio di confronto via Telegram — sarà in tour dal 10 giugno e per tutta l’estate. Sul palco, un quarantaduenne che osserva il presente con onestà, talento e un altro elemento: «Il senso di colpa è uno dei miei coautori».
«Dovremmo delegare di meno, lavorare di meno e ognuno avere una parte nella cura della vasta rete degli uomini». Il suo disco è una chiamata alla responsabilità?
«Mi sono reso conto, anche mio malgrado, che tiro fuori il meglio quando ragiono sul mio vissuto, sulle mie preoccupazioni e sui sensi di colpa, quindi in realtà la chiamata è a me stesso. La prima opzione che mi do è trovare un’alternativa a questo sistema politico, la democrazia rappresentativa è a un punto morto».
E allora suggerisce: «O ci dedichiamo a costruire alternative oppure almeno ci iscriviamo tutti al Pd».
«Ma quella è una provocazione, il Pd come la parrocchia sono per la mia generazione le ultime vestigia di una società in cui le persone hanno trovato sistemi per fare comunità».
Dunque il suo nuovo album è intimo o politico?
«Intimo, senza dubbio. Ma se non parlasse agli altri sarebbe un fallimento. Un lavoro individuale quando funziona artisticamente diventa subito politico».
Più amore o più impegno?
«Forse più amore anche perché le mie sono solo domande su cosa eventualmente potremmo fare».
Nel podcast «Esseri Finiti», tra i suoi ospiti c’è Paolo Giordano con cui condividete, sono parole dello scrittore, «l’idea di una borghesia sensibile con sensi di colpa, che tenta di fare la cosa giusta».
«Mi sono ritrovato, leggendo Tasmania, in questo sentirsi in crisi dal punto di vista personale e politico».
Lei scrive: «E ho pensato che sono molto fortunato a vivere questa vita».
«Sono consapevole di questa condizione di privilegio».
Definirebbe il suo album borghese?
«Sì perché io lo sono, e questo è un fatto. Ma direi anche che l’inazione descritta nel disco — sono qua, ma ora che faccio, faccio o non faccio? — è molto borghese nel senso deteriore del termine. Sento questa attitudine molto affine alla borghesia».
È questo non muoversi abbastanza, il non avere soluzioni a creare il senso di colpa?
«Certamente, ed è soprattutto un’eredità della cultura cattolica che fa parte di me, da adolescente ho frequentato il mondo dell’attivismo cattolico. In più, la mia generazione e quella precedente sono state forse le prime ad avere come prospettiva un tenore di vita inferiore rispetto a quello dei genitori. Anche i borghesi si sono misurati in modo nuovo con l’ansia per il futuro».
Rallentare, sedersi, parlare, rinunciare a qualcosa, avere un luogo in comune, frequentare il quartiere, cercare un senso
Si può perdere l’amicizia per colpa dei soldi, canta in «Amico».
«Durante la nostra chiacchierata mi sono accorto che Paolo Giordano ha colto subito questa ferita che in realtà nella canzone è sotto traccia. Mi interessava ragionare sui rapporti di amicizia in età adulta e sulla loro capacità di sopravvivere alle differenze di stipendio».
Anche se poi la finitudine del titolo livella tutto e tutti.
«Il personaggio della morte è abbastanza presente in questo lavoro, è vero, anche se il titolo dell’album è di Marco Buccelli che con Niccolò Contessa lo ha prodotto. Il punto è che proprio il fatto di essere finiti dà un valore immenso alle nostre scelte, a quello che decidiamo di fare. E allora mi sembra che la perifrasi Infinite possibilità per esseri finiti sia un buon modo per descrivere cos’è la vita».
Ma alla fine lo definirebbe un album ottimista o pessimista?
Infinite possibilità
«Ci sono componenti della mia vita, come la famiglia e il lavoro, che rappresentano zone di luce. Ma se mi guardo intorno lo scenario si incupisce e credo che l’album lo mostri. Non riesco però a considerarlo pessimista, perché con questo progetto ho provato a fare uno sforzo di immaginazione che andasse in senso opposto agli orizzonti apocalittici. Direi che è un disco pieno di interrogativi».
Un concept album?
«Lo hanno detto. Ma è una definizione che non mi interessa molto, anche se certo, il disco funziona meglio nella sua interezza, ha un concetto alla base».
Rallentare, rinunciare a qualcosa, organizzarsi con gli altri, agire in prima persona... C’è un po’ di Gaber.
«Hanno detto anche questo. E ne sono davvero felice».
È un manifesto?
«Sì, dove rinunciare è la parola più pesante: mi sembra la cosa più difficile». Partecipare?
«Già dalla copertina del disco: un’opera concepita dall’artista Aldo Giannotti e creata insieme con il pubblico al museo Mambo di Bologna. È un muro dipinto».
Ascoltando le diciotto tracce si sentono tanti suoni di sottofondo, perché?
«Il disco voleva esprimere i tanti modi in cui il suono si può manifestare: in modo cantato, parlato, con pezzi pianistici, altri strumentali senza pianoforte, rivisitando un brano di Brian e Roger Eno, fino al rumore urbano che è un po’ la linea narrativa dell’album».
E lo suonerà tutto in concerto?
«No, alcune canzoni rimarranno a casa per fare spazio ad altre».
Lei dal 2019 vive a Bologna, le piace? «Sì».
Le manca Centocelle?
«Sì».
Le manca Napoli dove è nato?
«No».
Raro per un cantautore napoletano. «Mi sono trasferito a Roma quando avevo poco più di vent’anni. Napoli è stata fondamentale per la mia formazione, ma non credo ci sia bisogno di sbandierarlo più di tanto».
Nel 2022 ha partecipato a Sanremo, lo rifarebbe? E ora avrebbe una canzone adatta?
«È stata un’esperienza molto bella. E sì, lo rifarei. Poi dipende da cosa intendiamo per canzone adatta, è una riflessione soggettiva che al di là del gusto dipende da come uno si immagina il proprio percorso artistico».
Truppi, in una canzone lei racconta la sua ostinata ricerca della felicità. Alla fine l’ha trovata?
«Meglio cantarla. E parlarne il meno possibile».