Corriere della Sera - La Lettura
LachiattasullaSenna dove nessuno ènormale
L’Adamant è la barca che dal 2010 a Parigi ospita un centro diurno per malati psichiatrici. Il regista Nicolas Philibert li ha ripresi per sette mesi: il risultato è il film che ha vinto l’Orso d’Oro e ora arriva a Bologna. «La Lettura» l’ha incontrato
Il regista Nato nel 1951 a Nancy, Nicolas Philibert esordisce come assistente di René Allio nel 1975 per Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello... Debutta nel documentario con La ville Louvre nel 1990 e firma da allora oltre venti film tra cui La Moindre des choses (1997), Essere e avere (2002, visto da due milioni di spettatori in Francia, il più grande successo in sala per un documentario), In ogni istante (2018) Il documentario Sur l’Adamant è il primo capitolo di una trilogia. I prossimi riguarderanno gli infermieri in ospedale e le visite domiciliari di un gruppo di sanitari detti «bricoleur» che assistono i pazienti a casa. Orso d’Oro al Festival di Berlino lo scorso febbraio, sarà il film di apertura del Biografilm Festival (Bologna 9-19 giugno, biografilm.it) che conferirà a Philibert (sempre il 9 giugno) il Celebration of Lives Award. Il film uscirà in autunno per I Wonder preceduto dal ritorno in sala di Essere e avere il 12 giugno Le immagini Dall’alto a sinistra in senso orario: i pazienti nel bar dell’Adamant; l’Adamant all’ancora al Quai de la Rapée; Nicolas Philibert (foto di Michel Crotto, gli altri sono fotogrammi del film); il laboratorio di danza
«Je veux vous parler de moi, de vous...». «Voglio parlarvi di me, di voi... Vedo immagini, colori. Che a volte mi fanno paura. Sensazioni che possono farmi impazzire». Canta François, appropriandosi di quei versi. La Bombe humaine, canzone che il gruppo Téléphone lanciò nel 1979, è riemersa tra i suoi ricordi. Nicolas Philibert quel giorno aveva acceso la macchina da presa, e quella canzone insieme al suo improvvisato esecutore sono diventati l’incipit di Sur l’Adamant, il film documentario che si è aggiudicato l’Orso d’Oro all’ultima Berlinale e che il 9 giugno inaugura il Biografilm Festival di Bologna.
L’Adamant è il nome di una barca, bella e strana (non naviga), con oblò che, come palpebre, si levano ogni mattina, ed è sinonimo di un’utopia realizzata. Ancorata sulla riva destra della Senna, lungo il Quai de la Rapée, è stata varata nel 2010 come centro diurno psichiatrico. Lì Philibert per sette mesi si è presentato puntuale a ogni apertura, ha dialogato con i pazienti e con il personale, acceso e spento la macchina da presa e ha tratteggiato il ritratto di un mondo dove normalità e follia, ironia e delirio, creatività e malattia si sovrappongono senza frizioni.
«Lo psichiatra Eric Piel, che viveva in una casa galleggiante, stanco di passare le giornate lavorative a salire e scendere le scale del palazzo che ospitava il suo centro, un giorno disse basta: ci vuole un posto sull’acqua», racconta Philibert. «Il suo sogno è oggi questa barca che si trova nel cuore di una metropoli, ma dove si ha l’impressione di essere altrove. La psichiatria ha bisogno di luce, di vita, e la Senna è la più bella avenue di Parigi».
«Il diritto al vagabondaggio è il primo diritto del paziente»: così sognava uno dei padri della psichiatria istituzionale, François Tosquelles. Il suo film però finisce con una domanda e un’inquietudine: fino a quando potrà durare?
«In Francia il sistema sanitario, che è stato a lungo descritto come il migliore del mondo, è in una situazione disastrosa. E la psichiatria è stata del tutto abbandonata, come se non valesse la pena di spendere troppo per pazienti considerati inguaribili. Ma ci sono luoghi che resistono, persone che continuano a fare una psichiatria degna, intelligente, umana. Anche per questo, 25 anni dopo La Moindre des choses (film che Philibert girò nella clinica psichiatrica de La Borde, fuori Parigi, ndr) sono tornato a fare un film su questi temi. Ho la sensazione che la psichiatria sia una lente sulla nostra società, come diceva Beckett: “Si nasce tutti pazzi, alcuni lo restano”. Ma bisogna vedere chi...».
Il suo film precedente, «In ogni istante» (2018), racconta una scuola per infermieri. Le interessa il mondo di chi cura.
«Il cinema che faccio io si occupa della guarigione. Lo psichiatra Jean Oury, a capo della clinique de La Borde, definiva il suo approccio “una forma di programmazione del caso”. Io uso la stessa espressione per parlare del mio lavoro che consiste nel creare le condizioni perché qualcosa possa emergere davanti alla macchina da presa, perché ci sia un incontro tra me e chi filmo. Io non parto da qualcosa che so già, come fanno i documentaristi per la tv che si impregnano di conoscenze che poi cercano di rendere visibili e comprensibili. Io faccio l’opposto, faccio film per imparare, per essere meno stupido, per capire come guardare le cose, per scoprire gli altri e forse una parte di me».
La macchina da presa non è mai invisibile nei suoi film, anzi in «Sur l’Adamant» è spesso l’interlocutore dei pazienti.
«Non cerco mai di farmi dimenticare, al massimo sono discreto, per non intralciare il lavoro di chi filmo, ma la mia presenza è evidente. Qualcuno sarà intimidito, altri esaltati, alcuni vi diranno: “Sono vent’anni che vi aspettavo”. E non per questo bisogna precipitarsi a filmarli. Però succedono spesso cose inattese e trovo questa dimensione appassionante. Non sono film che vanno su rotaie i miei, ogni giorno è un’avventura diversa».
Uno dei pazienti dice: «Siamo tutti attori senza saperlo». Si aspettava una simile consapevolezza?
«Sull’Adamant arrivano pazienti che in quel momento non stanno troppo male. Quelle stesse persone possono avere bisogno di un ricovero il giorno dopo o non essere in grado di uscire da casa per mesi. Lì arriva chi ha fatto lo sforzo di alzarsi, lavarsi, vestirsi, prendere un mezzo pubblico, nulla di questo è scontato per i pazienti psicotici. Io cercavo di filmare solo persone consenzienti, ma questo non basta, perché qualcuno può dire “voglio essere filmato”, ma essere in un delirio. Filmare persone che sono lucide, presenti in quel momento, è per me un imperativo. Una macchina da presa può fare male. Chi la usa può lasciarsi trasportare dalla voglia di mettere in scena uno spettacolo, di cedere al folklore, al pittoresco della follia».
Nel film, così come ci si dimentica di chi guarda chi, è anche difficile distinguere i pazienti dai sanitari, i «normali» e gli altri.
«La frontiera è porosa. E siamo davvero tutti sulla stessa barca. Mi è capitato di incontrare qualche volta persone che mi hanno inquietato, ma la maggior parte del tempo mi sono sentito bene con loro. Ho trovato sempre una forma di eleganza, una lucidità sul mondo, un’intelligenza incredibile. Tra i pazienti psichiatrici ci sono individui di immensa cultura, come Frédéric convinto di avere determinato il destino di van Gogh. Frédéric ha una cultura cinematografica e letteraria immensa, può raccontare decine di film di Wenders, Cocteau, Rivette, Rohmer inquadratura per inquadratura, è un vero esperto degli anni Settanta. E ha un senso dell’ironia magnifico. Ha trovato un modo, giusto per sé, di leggere il mondo e la propria storia: lo fa attraverso opere d’arte che conosce a memoria».