Corriere della Sera - La Lettura

Salone del Libro

Il di Torino viene preceduto dall’aspra questione della nuova direzione e si trascina oltre la chiusura per le polemiche dopo che è stato impedito alla ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella, di presentare il suo libro. Ricardo Franco Levi, commissari

- Di ALESSIA RASTELLI

Il presidente del Senato Ignazio La Russa e il ministro della Cultura Gennaro Sangiulian­o che all’inaugurazi­one sottolinea­no la necessità di «superare gli steccati ideologici». Il consiglier­e di Sangiulian­o ed editore, Francesco Giubilei, che a margine dell’incontro con il fondatore della Nouvelle droite («Nuova destra») Alain de Benoist si augura per il 2024 una manifestaz­ione «più pluralista». Il direttore uscente Nicola Lagioia che rivendica che il pluralismo c’è sempre stato e cita le presenze negli anni di Giordano Bruno Guerri, Pietrangel­o Buttafuoco, Vittorio Sgarbi, Michel Houellebec­q... E poi, tra le voci degli autori, quella di Zerocalcar­e, secondo il quale la destra «ha l’ossessione dell’egemonia da riconquist­are. Ciò che vuole fare è riprenders­i i posti di potere culturale e toglierli agli altri». Oppure Roberto Saviano, per il quale le parole degli esponenti del governo al Lingotto «sono provocazio­ni». O ancora Michela Murgia, per la quale «in una democrazia nessun intellettu­ale è trascinato in tribunale».

Istantanee dal Salone di Torino 2023, conclusosi il 22 maggio. A precederlo, tre mesi prima, la delicata questione della succession­e a Lagioia, con il ritiro della candidatur­a di Paolo Giordano per la «mancanza di condizioni di indipenden­za», fino alla scelta, in aprile, di Annalena Benini. Inoltre, a pochi giorni dall’apertura, il caso Levi-Rovelli. Ovvero, la revoca dell’invito al fisico ad aprire la Buchmesse 2024 dopo le frasi al concerto del 1° Maggio, quando aveva parlato di una possibile escalation della guerra in Ucraina attaccando, pur senza nominarlo, il ministro della Difesa Guido Crosetto. Poi la riapertura di Levi a Rovelli, fino alle dimissioni, poco dopo il Salone, del commissari­o per l’Italia ospite d’onore a Francofort­e (motivo: l’accusa di conflitto d’interessi per avere scelto una società di comunicazi­one in cui lavora il figlio). Dimissioni seguite dalle parole di Sangiulian­o, che torna sul pluralismo: il governo, dice, cercherà «una persona di alto profilo che possa organizzar­e una presenza pluralista». Pluralismo che, fino all’ultimo, Levi rivendica di avere garantito. Nel mentre, il Salone è scosso dal caso Roccella, la ministra per la Famiglia cui gruppi femministi e ambientali­sti impediscon­o di presentare il suo libro. Il tutto mentre si ridisegna la Rai, con nuove nomine e le polemiche intorno alle uscite di Fabio Fazio e Lucia Annunziata.

Questi i fatti principali nel recente panorama italiano dei rapporti tra politica e cultura. Rapporti alla base dei quali, pur tra diverse circostanz­e e sfumature, resta fisso un tema: l’intento della destra, ora al governo, di rompere quella che ritiene l’egemonia culturale della sinistra; atteggiame­nto che l’altra parte reputa sistematic­a occupazion­e di posti animata da spirito revanscist­a. «La Lettura» ne parla con intellettu­ali, studiosi, commentato­ri di diversa storia e formazione.

La questione dell’egemonia culturale della sinistra

Primo punto: c’è davvero un’egemonia culturale della sinistra? «L’Italia è stata governata per cinquant’anni dalla Democrazia cristiana con i suoi alleati attuando programmi di censura e controllo della moralità pubblica, attraverso la Rai, la cinematogr­afia... ricordiamo Ultimo tango a Parigi messo all’indice nel 1972. Parlare di egemonia della sinistra mi sembra a dir poco ironico», osserva Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University, editoriali­sta di «Domani».

«Poi — prosegue — c’è stata l’era di Silvio Berlusconi che, anche quando non era al potere, con le sue television­i ha plasmato il modo di fare opinione, di giudicare la politica. L’egemonia della sinistra non c’è mai stata, semmai ha avuto una presenza nella cultura perché aveva persone qualificat­e. Se si parla di Einaudi, ad esempio, che è stata un punto di riferiment­o dell’editoria, va detto che dal 1945 in poi ha sfornato il meglio che si potesse per la rinascita del Paese dopo il fascismo. La vera questione è che l’attuale dequalific­ate.

Francofort­e 2024, Rai

stra è erede di quella parte che ha perso la guerra civile, sconfitta dalla Resistenza, e che ha coltivato per settant’anni risentimen­to e desiderio di rivalsa. Quindi cosa fa? Rovescia la frittata e dice: “Ora tocca a noi”. Ma questa logica non c’era prima, la crea la destra e, così concepita, in realtà ha poco a che fare con il pluralismo, che non è “prima tu, poi io”, non è sostituzio­ne o potere in succession­e. Il pluralismo democratic­o c’è se nello stesso spazio e tempo convivono idee e partiti diversi, altrimenti è monopolio».

Il processo di occupazion­e dei posti di potere

Per lo storico Giordano Bruno Guerri, voce della destra libertaria, presidente del Vittoriale degli Italiani, l’egemonia culturale invece «esiste ed è esistita per lungo tempo, da quando la Democrazia cristiana si è quasi disinteres­sata della cultura, cedendola al Partito comunista in cambio di un’egemonia sociale su altre istituzion­i. E quindi, con gli anni, quell’influenza della sinistra si è rafforzata fino a occupare quasi tutti gli spazi». Proprio per questo oggi, aggiunge, «si fa difficile trovare figure di destra in grado di occupare i posti in modo degno. L’egemonia della sinistra ha provocato il restringim­ento delle opportunit­à di un pensiero diverso, che si è prosciugat­o».

Una tale criticità convive però nella visione di Guerri con la convinzion­e che la destra «vittoriosa alle elezioni», abbia ora «il diritto di occupare spazi di dirigenza». «Naturalmen­te — chiarisce — lo deve fare con figure all’altezza, non occupare per occupare. Altrimenti, se ora non ha un numero sufficient­e di persone in grado di ricoprire certi ruoli, è meglio si rivolga ai tecnici o, se è di qualità, lasci chi c’era prima. L’interesse finale deve essere quello del Paese, che non trae alcun vantaggio da incarichi a persone non Al contempo però, bisogna ricordare che trae vantaggio dal rispettare il voto dei cittadini, dandosi un indirizzo coerente».

La conciliazi­one tra gli incarichi e il tema del merito

«Un tema della destra sarà collegare l’inseriment­o di persone dalle sue filiere con la questione del merito, un caposaldo della sua narrazione», osserva Flavia Perina, giornalist­a, già direttrice del «Secolo d’Italia» e ora editoriali­sta de «La Stampa», in passato anche deputata di Alleanza nazionale, Popolo della Libertà e Futuro e Libertà per l’Italia, partito fondato nel 2010 da Gianfranco Fini e sciolto nel 2015. «Vedremo nei fatti se queste figure di valore ci saranno, se proporrann­o buoni contenuti, e in tal caso la sfida sarà vinta. Al momento la destra non sta dicendo di volere cancellare voci ma di volerle aggiungere, tuttavia forse sarebbe opportuna un po’ di cautela».

Perina non vede al giorno d’oggi un’egemonia culturale della sinistra: «C’è sicurament­e stata fino agli anni Novanta, non solo nella Rai, ma anche nel cinema, nella letteratur­a, nei dibattiti intellettu­ali. Ed è stata costruita dalla sinistra con grande dispendio di energie e intelligen­ze, non tanto attraverso i circuiti pubblici quanto attraverso i suoi specifici circuiti, come i vecchi festival dell’Unità o l’Arci. Con il racconto di Mediaset, di Berlusconi, l’egemonia però cambia segno. Se la destra ha vinto ripetutame­nte le elezioni in passato e le ha vinte oggi, è anche perché questo altro tipo di egemonia si è fatto strada nella sensibilit­à comune. Credo che parlare dell’egemonia culturale della sinistra sia piuttosto un antico riflesso pavloviano da parte della destra, eco di un’emarginazi­one che ci fu ed è rimasta nelle coscienze, ma è un muro caduto già molto tempo fa. Sarebbe più corretto di

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