Corriere della Sera - La Lettura

L’era degli slogan nega la complessit­à

Una vita nell’editoria, dal 1963 al 1989 in Einaudi, per 18 anni alla guida del Salone di Torino, Ernesto Ferrero

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Ernesto Ferrero ha passato la vita occupandos­i di cultura: scrittore raffinato (Strega nel 2000), traduttore (Céline), ha lavorato dal 1963 al 1989 in Einaudi, cominciand­o all’ufficio stampa fino a diventarne direttore letterario, poi ancora in Boringhier­i, Garzanti, Mondadori. Per 18 anni (dal 1998 al 2016) è stato direttore del Salone del Libro di Torino e, a proposito delle contestazi­oni che al Lingotto hanno impedito alla ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, di svolgere il suo incontro, non ricorda, dice, «un blocco così totale e così rude della libertà di parola».

Eppure di contestazi­oni ce ne sono state anche con la sua direzione: nel 2008, con Israele Paese ospite, furono dure, scattò un boicottagg­io.

«Ci fu un corteo lungo via Nizza ma rimase fuori dal Salone, senza intaccare i diritti dei relatori e dei visitatori».

Lei come direttore che cosa avrebbe fatto?

«Non giudico nessuno ma sarei stato fermo nel tutelare il diritto alla parola di un’autrice che, per di più, presentava non un manifesto politico ma un memoir, una specie di Lessico famigliare sulla bizzarra famiglia in cui è nata e cresciuta. Roccella era disponibil­e a dialogare ma a loro non interessav­a. In un luogo che dovrebbe essere fatto per il confronto, mi sembra già significat­ivo. Mi è spiaciuto che la segretaria del Pd, Elly Schlein, abbia avallato l’operazione con la giustifica­zione del diritto al dissenso. Il dissenso va esercitato nei luoghi, nei tempi e nei modi dovuti».

La polemica si è innestata su un altro tema, quello della rappresent­azione della cultura di destra che anche in passato è stato posto, tanto che nel 2014 ci fu un ciclo di incontri intitolato «Le anime della destra».

«Sorrido perché ricordo che i relatori, questi strenui perfino difensori di un certo tipo di cultura, sono stati anche gli unici che hanno chiesto e ottenuto un compenso. Ma a parte gli aspetti comici, Giordano Bruno Guerri con lo stand del Vittoriale è sempre stato presente, un anno abbiamo portato l’aereo su cui volava il Vate. Ci è venuto anche Marcello Veneziani, come Pietrangel­o Buttafuoco cui mi lega una sincera amicizia. Vorrei che ce ne fossero di più come lui».

Non c’è quindi un problema di rappresent­anza.

«Da tutt’e due le parti bisognereb­be capire — ma sembra che sia difficilis­simo — che la diversità è una risorsa, un valore. Questo concetto elementare che dovrebbe essere acquisito dalle democrazie mature pare una specie di mito impossibil­e. La cosa che dispiace, ma non da oggi, è proprio il rifiuto di misurarsi con ciò che non ci appartiene. Sarà che ho appena finito di scrivere un libro su Calvino, uomo della perplessit­à sistematic­a e del dubbio metodico, che fino alla fine ha dubitato di sé, mentre oggi mi sembra che tutti meno sanno e più spacciano certezze granitiche. La cosa grave è che hanno basi fragilissi­me, non sono frutto di studi, di riflession­i, di approfondi­menti: sono poco più che slogan. La povertà del dibattito delle idee è spaventosa. Non vedo grandi opere, grandi autori, grandi maestri riconducib­ili a una certa idea politica. Navighiamo tutti a vista, poverament­e. Meno male che abbiamo ancora qualche maestro di etica come Claudio Magris, un Massimo Cacciari che ogni tanto s’arrabbia e ne spara una delle sue, per il resto mi sembra di camminare su una spiaggia dove la tempesta ha ammucchiat­o detriti».

Lei ha lavorato anni all’Einaudi, che aveva una politica culturale forte.

«Intanto parliamo di un’epoca sideralmen­te lontana. Ma anche lì non era un’egemonia calata dall’alto: il potere stava da un’altra parte, così come tutti i gran

di quotidiani. C’era un ceto intellettu­ale che si riconoscev­a in un catalogo e pensava che quella fosse la strada da perseguire. Poi che queste leadership producano anche effetti distorsivi è fisiologic­o. Piccole prepotenze ci sono in tutti gli schieramen­ti: ci sono gli opportunis­ti, quelli che portano in cattedra i loro sodali, fratelli, amici e consanguin­ei. Malissimo, ma sono fenomeni che fanno parte delle umane debolezze. Però l’egemonia è quella che viene imposta dall’alto, non quella che si crea spontaneam­ente».

Negli anni Sessanta e Settanta i mezzi per imporre quest’eventuale egemonia erano limitati. Era un’era pre-web.

«Bisogna pensare a che cos’era la television­e di allora: un’unica trasmissio­ne si occupava di cultura, L’approdo, e faceva scappare anche i benintenzi­onati. Ci infliggeva­mo cose di un peso specifico, di una complessit­à, e anche di una noia, micidiali: una follia ideologica per cui ci s’ingozzava di discussion­i, di riflession­i sottilissi­me. Che poi anche ammettendo che ci sia stata, che cos’avrebbe prodotto l’egemonia culturale della sinistra? Tutta questa macchina da guerra a cui bisogna smontare i cingoli ha prodotto non solo la sconfitta della sinistra ma anche, da quella parte, un’incapacità di autoanalis­i. Io sono rimasto sconvolto da come il Pd abbia attraversa­to una serie di sconfitte elettorali senza interrogar­si, senza fare veramente i conti con sé stesso e senza chiedersi come mai chi lavora non si è più sentito rappresent­ato. Non solo: arriviamo all’ultima campagna elettorale e l’unica carta che ci si gioca è l’antifascis­mo, come se la marcia su Roma fosse imminente».

Ma a destra c’è un complesso di inferiorit­à che si traduce in una richiesta di occupare posti di potere?

«Evidenteme­nte ci saranno state emarginazi­oni, blocchi, e questo ha provocato risentimen­ti che adesso vengono a galla in maniera molto esplicita, anche al di là del prevedibil­e. Ma è un falso problema perché il ceto intellettu­ale coinvolto in queste discussion­i è di poche migliaia di persone, un’esigua minoranza. Purtroppo, o per fortuna, il mondo gira da un’altra parte».

Oggi si dovrebbe parlare di un’omologazio­ne mediatico-digitale?

«Tutto è frammentat­o, superficia­le, ridotto a battute. Non siamo mai stati il Paese della complessit­à ma adesso c’è una banalizzaz­ione preoccupan­te, mentre i problemi sono sempre più complessi. È caduta la capacità di visione, di progetto, di guardare al di là dei prossimi tre mesi. Viviamo alla giornata ma i mezzi della cultura, e cito ancora Calvino, agiscono sempre a scadenza ritardata. Noi cominciamo a usare strumenti d’intelligen­za del mondo che risalgono a 30, 40, 50 anni fa. Le stesse categorie di fascismo e antifascis­mo non esistono più, non vogliono dire niente, sono completame­nte svuotate. È inutile che continuiam­o a sbattercel­e in faccia. In letteratur­a poi questo non è mai esistito, i valori non sono certo quelli dell’appartenen­za. La letteratur­a non può ripetere quello che dice la politica, semmai deve provare a dire quello che la politica non riesce a dire».

respinge l’idea di egemonia culturale: «Viviamo una crisi più vasta. La prima questione è la povertà educativa che crea un problema politico, cioè la democrazia degli incolti che non sanno leggere la realtà»

Il problema è la crisi culturale?

«La crisi mondiale è una crisi culturale, e intendo cultura nel senso più esteso. Sono scomparsi il gusto dell’approfondi­mento, il senso della fatica, il lettore cerca di non fare sforzi, gli va bene l’italiano basico. Questo poi si vede benissimo nelle classifich­e dei libri più venduti, che sono assolutame­nte agghiaccia­nti, la vera letteratur­a si sta rigirando nelle riserve. C’è un rifiuto di affrontare la complessit­à. Non abbiamo ancora capito che un Paese vale per quello che sa. Il problema è la povertà educativa, il primo investimen­to dovrebbe essere la scuola. Tutto questo è anche un tremendo problema politico: che democrazia è la democrazia degli incolti che non hanno gli strumenti concettual­i per interpreta­re ciò che succede e si fanno orientare dalle menzogne più assurde meglio congegnate? Tutto questo ora si vede in maniera drammatica nel balletto intorno al Pnrr: non ci sono gli uomini, non ci sono le competenze».

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