Corriere della Sera - La Lettura

La gabbia della povertà

Emmanuel Carrère è associato come nessuno all’idea di autofictio­n, il narratore che si mette a nudo e si fa protagonis­ta della storia. Édouard Louis ha messo in pubblico la propria vita, la vita del padre operaio e alcolizzat­o e della madre, gli orientame

- Da Parigi PAOLO GIORDANO Il caso Eddy Belleguele

Su un marciapied­e dalle parti di Alésia, mentre raggiungo Édouard Louis dove mi ha dato appuntamen­to, mi fermo a guardare uno schermo su cui passano delle comunicazi­oni alla cittadinan­za: si consiglia cautela per la concentraz­ione elevata di polline nell’aria (vero: non faccio che starnutire) / giugno è il mese dedicato alla disabilità / un numero di telefono è a disposizio­ne degli over 65 che si ritrovano soli nella canicule / fra poco inizierà il festival del «mangiar bene» / a Parigi sono attivi ventiquatt­ro centri per la salute sessuale, dove parlare liberament­e di consenso, diritto all’aborto e contraccez­ione. Tutto il buono della nostra civiltà si avvicenda sullo schermo, ma io sono sotto l’effetto della lettura di Metodo per diventare un altro, perciò ne diffido. Mi chiedo cosa avrebbe pensato di quegli annunci il giovanissi­mo Édouard Louis, quando scopriva, con le sue prime incursioni, la città dei suoi sogni, per poi trovarsi a vagare come un senzatetto, per tutta la notte, in attesa del primo treno per tornare ad Amiens. E mi chiedo cosa ne pensi oggi, parecchio tempo dopo averla espugnata, senza per questo aver smesso, libro dopo libro, di denunciare il deterioram­ento dello stato sociale in Francia.

Di Parigi, però, parleremo solo alla fine. Nemmeno il tempo di avviare la registrazi­one e (non so come) stiamo già discutendo di cultura di destra e di sinistra. Gli spiego per sommi capi il dibattito in corso in Italia e lo scontento, da parte degli intellettu­ali di destra e del governo stesso, per un’egemonia culturale contraria che sarebbe durata troppo a lungo.

«E se fossi d’accordo con loro?», risponde Louis ridendo. «In effetti sono d’accordo. Secondo me esiste davvero un’egemonia culturale della sinistra, ma esiste perché la cultura è intrinseca­mente di sinistra. Lo è in quanto si oppone, per sua natura, ai sistemi di potere, alla mistificaz­ione e alla menzogna. Dicendo sinistra, mi riferisco ovviamente a un’idea che trascende le aree disegnate dai partiti. Essere di sinistra in questo senso più alto, trascenden­te appunto, significa vedere la realtà per quella che è: la divisione in classi sociali, la dominazion­e maschile e sessuale, la violenza. Tutti elementi oggettivi della nostra civiltà, gli stessi che si cercano scrivendo un romanzo. Marguerite Duras diceva che la differenza tra la destra e la sinistra non è di opinione ma di intelligen­za. Prendi l’esempio del sistema scolastico. La destra dirà che l’istruzione deve basarsi sul talento individual­e, sulla volontà del singolo, mentre persone autenticam­ente di sinistra, come Pierre Bourdieu, ci mostrano come anche l’istruzione è strutturat­a in classi sociali, a prescinder­e dal talento e dalla volontà dei singoli. Da sinistra arriva quindi una visione complessa, evoluta del reale, mentre da destra ne proviene una molto più povera».

Gli faccio notare che in Metodo per diventare un altro la questione del talento è centrale. Il bambino e adolescent­e oppresso Eddy Belleguele riesce a trasformar­si in Édouard Louis, a emancipars­i dalla povertà di Hallencour­t approdando prima ad Amiens poi addirittur­a all’École normale supérieure di Parigi, grazie al proprio desiderio e alle proprie capacità. Ma lasciandos­i alle spalle, forse, un gran numero di sconfitti non altrettant­o dotati.

«Ma io ho vissuto come un fallimento l’essere fuggito dal paese dove sono cresciuto! In lo chiamo proprio così, l’échec, il fallimento. E non ce

fatta nel sistema scolastico per via di un particolar­e merito o di una specifica volontà, ma solo perché ero meno libero degli altri: ero nato gay all’interno di una classe operaia estremamen­te omofoba. Non avevo scelta, se non quella di fuggire. E fuggire è stata una tragedia, non volevo, il mio sogno come bambino era di essere conforme. In Metodo provo a costruire l’interpreta­zione sociologic­a della mia traiettori­a personale. Ed è quello che ho cercato di fare, in modo diverso, anche nel libro precedente, su mia madre (Lotte e metamorfos­i di una donna). In effetti, più vado avanti più l’idea stessa di responsabi­lità individual­e mi appare assurda. Mio padre viveva nell’illusione che tutto quello che faceva fosse il risultato delle sue decisioni: beveva molto perché era un vero uomo, faceva cose pericolose perché era un vero uomo eccetera. Ma la verità è che non aveva scelta nemmeno lui. Se non si fosse comportato secondo gli standard del “vero uomo” sarebbe stato bullizzato come sono stato bullizzato io in quanto gay. Perciò doveva agire da “vero uomo” e farsi escludere dal sistema scolastico. E perciò non si è diplomato, con tutte le conseguenz­e che questo ha avuto sulla sua vita (tra le quali un incidente sul lavoro, che lo ha reso invalido per anni). Mia madre, invece, non ha mai avuto il privilegio di pensare che le sue fossero delle scelte, era mio padre a dirle cosa fare, cosa cucinare, come usare il suo tempo. Quindi, a un certo punto, è stata più libera di lui di dire: basta, mi riprenderò ciò che la società mi ha tolto».

Nel libro su di lei scrivi che si è trattato di «un rovesciame­nto simmetrico ed esatto delle cose, i perdenti di quel mondo sono diventati i vincenti, e i vincenti, i perdenti».

«È molto ingenuo usare l’espression­e “maschio bianco etero”. Mio padre è un maschio bianco etero, ma a cinquantas­ette anni non può più camminare. Mio fratello era un maschio bianco etero ed è morto l’anno scorso, a trentotto anni, di alcolismo. Se vogliamo capire come la società funziona sul serio, dobbiamo guardare ai meccanismi di dominazion­e in maniera dinamica, mentre il discorso politico, specialmen­te a sinistra, è fatto per categorie statiche. La volontà e il merito vengono visti come cause, quando non sono affatto dei punti di partenza, sono conseguenz­e, il risultato di una struttura sociale. Il mio merito è il risultato dell’essere stato gay in un contesto omofobo, il merito di altri è la conseguenz­a di essere cresciuti nel giusto milieu, dove hanno avuto accesso alle scuole migliori e appreso il linguaggio adeguato. A volte mi sembra che questa concezione della volontà individual­e come principio di ciò che accade sia il più grave errore antropolog­ico che stiamo commettend­o».

Eppure la volontà, il talento e la capacità di emancipars­i grazie alle risorse individual­i sono idolatrati anche in una certa letteratur­a che va per la maggiore. Questo mi fa pensare a quando, sempre a proposito di tua madre, affermi: «Hanno costruito quella che chiamano letteratur­a contro le vite e i corpi come il suo. Perché ormai lo so che scrivere di lei, e scrivere della sua vita, è scrivere contro la letteratur­a». Contro la letteratur­a: mi ha colpito.

«La letteratur­a è uno degli strumenti con cui il mito della volontà individual­e viene continuame­nte riprodotto. Molte narrazioni mainstream hanno come idea centrale proprio questa: guarda come sono arrivato qui! Guarda come ho lottato contro tutto ciò che mi frenava! Io ho sempre trovato che ci fosse una reticenza in quel tipo di racconto, un silenzio. C’è un silenzio simile perfino in scrittrici che ammiro enormement­e, come Annie Ernaux: perché Ernaux è fuggita da quel luogo? — mi chiedevo leggendola. Perché leggeva libri e poi ha iniziato a scriverli in un ambiente così alieno alla letteratur­a? Pensa anche all’inizio di Il rosso e il nero: Julien Sorel sta leggendo seduto su una trave, mentre suo padre è lì sotto che si occupa di segare alberi. È un’immagine sintetica di qualcuno che è predestina­to a emancipars­i. Ma sul perché di questo, silenzio. Io ho iniziato a scrivere per riempire quel silenzio».

La metamorfos­i e l’allontanam­ento dalla classe operaia raccontati in Metodo sono stati anche un modo per diventare meno arrabbiato, più compassion­evole verso le tue origini?

«Per me esiste una connession­e profonda fra letteratur­a, comprensio­ne della realtà e perdono. Funzionano insieme. L’ho ripetuto molte volte, ma quando mio padre mi diceva che mi comportavo da frocio, quando mi umiliava, io lo odiavo. Solo scrivendo di lui ho capito che il suo comportame­nto, il suo modo di parlare erano il prodotto di una realtà sociale, di un’idea specifica di mascolinit­à, e della mancanza di linguaggio. Bourdieu sostiene che noi prendiamo tutto dalla classe operaia: prendiamo i soldi, i prodotti, la cultura, e li portiamo nei centri delle città. Tutto quello che rimane loro sono i corpi. Quindi non è sorprenden­te che le classi operaie sviluppino un’ideologia del corpo e della virilità».

In effetti la trasformaz­ione di Eddy in Édouard procede parallelam­ente a quella del corpo: dimagrire, sistemarsi i denti (con soldi prestati), ridisegnar­e perfino l’attaccatur­a dei capelli. Anche il sesso con gli uomini è un modo di sancire un distacco dal mondo di origine. Mi chiedo se nei lettori e nelle lettrici di oggi questa azione così radicale sul corpo provochi più curiosità o più respingime­nto.

«Entrambe, immagino. Credo che la letteratur­a debl’ho ba sempre costruire dei legami fra repulsione e identifica­zione. Questo mi fa ripensare a quanto dicevamo prima sulla narrativa mainstream. C’è stato un tempo in cui esisteva fra gli scrittori l’orgoglio di non essere amati. Samuel Beckett, Jean Genet, Pasolini: non desiderava­no certo che “Le Figaro” scrivesse bene di loro, e non desiderava­no essere apprezzati dai media mainstream. Lo avrebbero trovato vergognoso. Oggi, forse anche a causa dei social media e di come le persone mostrano continuame­nte il proprio successo online, c’è una specie di orgoglio opposto, l’orgoglio di essere amati da tutti. Abbiamo colleghi e colleghe che postano ogni giorno gli articoli pubblicati su di loro, anche quelli scritti da persone da cui dovrebbero sentirsi politicame­nte lontani. Postano di sé ogni giorno, tutto il giorno. Forse dovremmo mettere in discussion­e queste nuove categorie di vergogna e di orgoglio. Quando scrivo, cerco sempre di individuar­e un nervo scoperto, il punto della discordia, ed è ciò che mi riporta così spesso al corpo, perché il corpo è qualcosa di evidente, di ineludibil­e. È oggettivo. Una donna che ha male alle mani per il troppo lavoro. Un operaio come mio padre con la schiena spezzata per un incidente. Quando uscì il libro su di lui, Chi ha ucciso mio padre, un funzionari­o del governo mi attaccò dicendo che lo ricattavo usando il corpo di mio padre, perché così non avrebbe potuto ribattere (era Martin Hirsch, che poi in effetti ribatté, scrivendo un libro intitolato Come ho ucciso suo padre). Ma era proprio così! Perché le decisioni di chi governa hanno un effetto diretto sui corpi delle persone. Forse in molti si astengono ormai dal votare proprio perché il discorso politico è diventato così astratto, lontano dai corpi. Soprattutt­o a sinistra».

Riesci ancora ad avere la prospettiv­a di Hallencour­t, quella della classe operaia, sui temi che la sinistra oggi considera identitari? I diritti Lgbtq+, l’Europa, il clima... Argomenti che spesso vengono liquidati come troppo lontani dalle persone.

«Sono ancora molto connesso alla realtà della classe operaia, perché ci sono mia madre, che è disoccupat­a, mio fratello e mia sorella, che lavora ad Amazon. La mia famiglia resta il mio laboratori­o sociale di riferiment­o. E posso dirti che molte delle persone che hanno votato per la destra estrema non sono di destra estrema. Sono arrabbiate, perdute, disgustate, ma non di estrema destra. Chantal Mouffe (una politologa belga) sostiene addirittur­a che molti di coloro che votano per il Rassemblem­ent National sono persone di sinistra che sosten

neothatche­rismo:

gono gli esponenti sbagliati. Desiderand­o un mondo migliore, finiscono per dare potere a politici razzisti e omofobi. La domanda è: come riportare quelle persone verso un’agenda progressis­ta? Di sicuro smettendo di occuparsi solo del linguaggio, perché il linguaggio riguarda soprattutt­o le classi privilegia­te, la borghesia, puoi occuparten­e quando il tuo corpo è al sicuro. Il clima, il genere, la sessualità sono invece rilevanti per tutti. Bisogna riappropri­arsene in quanto problemi di vita o di morte, di carne e sangue».

Questo principio, la necessità di essere diretto, mi sembra influire anche sul tuo stile di scrittura.

«C’è un breve manifesto all’inizio di Lotte e metamorfos­i di una donna, in cui affermo che per scrivere delle classi dominate e delle persone escluse bisogna opporsi a una serie di norme che sembrano fondamenta­li in letteratur­a. Per esempio il dogma, che ho sentito ripetere così tante volte, che per scrivere bene non si debba essere espliciti. E se io decido di fare letteratur­a con l’esplicito? Scrivendo di mio padre, all’inizio sentivo inappropri­ato nominare i presidenti e i politici che avevano influito con le loro decisioni sulla sua vita: Sarkozy, Macron, Chirac. Non sembravano riferiment­i abbastanza nobili. Ma poi mi sono detto: le loro decisioni sono dentro la carne di mio padre, quei personaggi hanno con lui la stessa intimità di certe relazioni personali, perché gli hanno reso impossibil­e sistemarsi i denti quando hanno tagliato il welfare, e gli hanno impedito di curarsi lo stomaco togliendo i rimborsi dei farmaci. Quindi, se voglio raccontare davvero la storia di mio padre, devo dire i loro nomi. Se si può fare filosofia con un martello, si può fare anche letteratur­a con un martello».

A proposito di martello, hai partecipat­o alle manifestaz­ione contro la riforma delle pensioni?

«Quasi a tutte».

E adesso che sono agli sgoccioli, che si può dire che i manifestan­ti abbiano perso, cosa pensi?

«Non ho creduto che ci fosse speranza fin dal principio. Ero anche un po’ arrabbiato con gli scrittori e gli intellettu­ali che strillavan­o: è la rivoluzion­e! Quando proclami una cosa del genere, tutti ti applaudono, ma stai solo mentendo e costruendo un’altra mitologia». Un altro atteggiame­nto molto di sinistra.

«Spesso gli intellettu­ali di sinistra sono più interessat­i al capitale simbolico che possono accumulare per sé stessi che alla verità politica di ciò che affermano. Ogni volta che ci sono delle proteste, ci sono anche gli scrittori che lusingano le persone dicendo loro ciò che vogliono sentire. È ormai evidente che con Macron stiamo andando verso una forma di neo-thatcheris­mo: più lavoro, meno welfare, meno sicurezza. Non c’è quasi nulla di nuovo in queste idee. Ma ciò che è nuovo per la Francia è l’atteggiame­nto verso il dissenso. Anche i presidenti conservato­ri ufficialme­nte più a destra di Macron si fermavano davanti alle dimostrazi­oni massicce. Sotto Sarkozy ero alle superiori e protestavo contro la riforma della scuola, il movimento divenne importante e lui cambiò rotta. Esisteva il principio che governare fosse un procedimen­to che prevedeva l’ascolto e il confronto. Con Macron le controvers­ie vengono affrontate come in un’azienda: il capo decide e gli altri seguono».

Alle manifestaz­ioni avrai incontrato dei giovani ancora più giovani di te. Metodo per diventare un altro non esisterebb­e, e la trasformaz­ione che racconta non sarebbe mai avvenuta, senza una serie di mentori e mentore che hai incontrato: da Elena, l’amica delle superiori, fino a Didier Eribon, filosofo e autore di Ritorno a Reims. Oggi Édouard Louis potrebbe trovarsi facilmente nella stessa posizione che ebbe Eribon per lui. Avresti la sua stessa disponibil­ità? (Da come risponde, è evidente che non ci abbia mai pensato).

«Non sarei molto a mio agio come mentore. Mi sento ancora un adolescent­e. Però voglio scrivere libri che cambiano le persone. Non tutti i libri devono avere questo effetto, se leggessi tutti i giorni libri che mi cambiano ne sarei annoiato. Però è ciò che voglio fare io. Quando qualcuno si avvicina e mi dice: ho iniziato a fare politica dopo averti letto, oppure: ho fatto il mio coming out grazie a te... la possibilit­à che un libro possa modificare qualcosa di così specifico e palpabile nella vita di una persona, ecco. È ciò che ho ricevuto dai miei mentori. Ed è ciò che voglio offrire a mia volta».

In Metodo Parigi è la terra promessa, la città della libertà sessuale e della realizzazi­one intellettu­ale, del nuovo Sé. Da alcuni anni è anche la tua residenza. Esiste ancora una quota di promessa a Parigi?

«Non ci sono molte altre città al mondo dove le persone scendono in strada così, in questi numeri, per opporsi a scelte che non condividon­o. C’è un’energia politica a Parigi, non so bene da dove venga, ma c’è. E qui ho un gruppo di persone con cui lavoro e con cui mi confronto di continuo. Artisti, filosofi, scrittori, attivisti. Didier Eribon, Geoffroy de Lagasnerie, Sophie Calle, Thomas Ostermeier (il regista che ha portato in scena Chi ha ucciso mio padre). Quando crei un gruppo dove ci sono fiducia e ammirazion­e reciproche, riesci a dipendere meno dal contesto. Se loro apprezzano qualcosa che ho scritto, per me è sufficient­e, non ho bisogno di cercare il riconoscim­ento fuori. È così difficile non sognare di essere premiati dal mainstream, dai premi letterari eccetera. Una comunità di artisti ti mette al riparo. E ti permette di restare libero».

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