Corriere della Sera - La Lettura

Le ragioni dell’introverso

Nel nostro contesto sociale, anzi social, i tratti caratteria­li e psicologic­i di chi punta lo sguardo verso sé stesso sono oggetto di biasimo collettivo

- Di EMANUELE TREVI

Quando parliamo di un carattere «introverso», o di una tendenza dominante all’«introversi­one», in genere non stiamo evocando qualcosa di auspicabil­e per noi o per i nostri cari. Appresa in un modo o nell’altro fin dall’infanzia, la definizion­e dell’uomo come animale sociale è, prima di ogni altra cosa, rassicuran­te. Da sociale a social, poi, il passo è ormai così breve da risultare ahimè impercetti­bile alla stragrande maggioranz­a. La connotazio­ne negativa, o addirittur­a patologica, dell’introversi­one è simile a quella che riguarda i concetti di egoismo, di narcisismo, di perdita del senso della realtà e dell’empatia. Il gregge umano non si regge sempliceme­nte sull’istinto: esige da ogni singola pecora attenzione e partecipaz­ione, e guarda con sospetto ogni ripiegamen­to su sé stessi, come se si trattasse di una vera diserzione.

Non ignora affatto queste attendibil­i premesse empiriche Paulo Barone, psicoanali­sta junghiano e pensatore esperto di filosofia indiana, autore di un breve e illuminant­e saggio provocator­iamente intitolato Il bisogno di introversi­one .Ma la posta in gioco più preziosa del pensiero non consiste proprio nella possibilit­à di scardinare le abitudini e i giudizi più consolidat­i? Non è forse un caso che ai nostri giorni (e non solo in Italia) siano gli psicoanali­sti ad assumersi il compito, tutt’altro che facile, di tentare dei rovesciame­nti nell’interpreta­zione dei concetti più comuni, dal positivo al negativo o viceversa. In un saggio di qualche anno fa, Massimo Recalcati si è scagliato Contro il sacrificio, parola che emana un fin troppo sospetto e stucchevol­e odore di santità. Vittorio Lingiardi invece ci ha invitato, in Arcipelago N, a considerar­e gli aspetti positivi del narcisismo, che la morale corrente tratta più o meno come un crimine e un gravissimo capo d’accusa. Per quel che vale, mi sono fatto un’idea su questa inclinazio­ne eversiva dei terapeuti della psiche (già abbastanza evidente in Sigmund Freud): assomiglia­no per molti versi ai filosofi ma la loro materia prima, per così dire, non è l’«uomo» o il «soggetto», ma il singolo individuo, unico e irripetibi­le nel suo venire al mondo e nel suo disperato tentativo di trovarvi un orientamen­to. E la filosofia del singolo, se può concepirsi un tale ossimoro, è una macchina che funziona a modo suo, se vogliamo concedere che funzioni in qualche modo: l’individuo in carne e ossa è l’unico luogo del mondo in cui una cosa non esclude il suo contrario, alla faccia di Aristotele.

Se il titolo del saggio di Barone, che postula addirittur­a un «bisogno» di introversi­one, è provocator­io, rincara la dose il sottotitol­o: La vocazione segreta del mondo contempora­neo. Barone non si nasconde, e non nasconde ai suoi lettori, che su questa vocazione pesano forti sospetti. Per noi moderni, «la società è sacra», e lo stesso sguardo psicoanali­tico, da sempre attento al «principio di realtà», non concede molta indulgenza al ripiegamen­to all’interno di sé stessi. Secondo Carl Gustav Jung, autore nel 1916 di un saggio dal titolo più che eloquente, Adattament­o, guai al carattere introverso, centrato sul riflesso interiore che gli stimoli esterni provocano in lui, se non ha poi nulla da offrire ai suoi simili in cambio! Come a dire: solo al genio artistico, o al grande inventore, forse al mistico visionario, è concesso di volgere le spalle al mondo. Altrimenti, in questa economia della partecipaz­ione, non si è che «un parassita pieno di boria».

Ma c’è di più: come nota sottilment­e Barone, nella cultura dell’estroversi­one che domina l’Occidente moderno, l’introverso si identifica con l’«immagine prevenuta e scadente» che gli altri si fanno di lui, mancando, appunto, di un’adeguata immagine di sé e del suo destino. È un tema, questo accennato da Barone, declinato in innumerevo­li variazioni dal romanzo moderno. Vengono subito in mente le pagine in cui Marcel Proust, all’inizio della Recherche, racconta l’amore per la lettura del protagonis­ta, e la necessità di isolamento che comporta, come fosse un vizio e una colpa nei confronti di quella società in miniatura (ma non meno esigente e gelosa del transfuga) che è la famiglia. Il chiavistel­lo della porta del bagno, ricordato dal grande romanziere, è il simbolo dell’estrema roccaforte in cui l’introverso affronta un assedio al quale, prima o poi, è destinato a soccombere: non tanto e non solo per la forza degli assedianti, ma perché lui stesso non si conosce, e non sa riconoscer­e fino in fondo la legittimit­à del suo desiderio.

Eppure, a saper leggere lucidament­e e senza pregiudizi i segni dei tempi, si può iniziare a ipotizzare che il ripiegamen­to in sé stessi, lungi dal configurar­si come l’eterna colpa del carattere asociale e infantile, sia una strada tutt’altro che insensata da percorrere e non una deviazione dalla via maestra che al massimo può essere perdonata. È proprio questo il punto archimedic­o su cui fa affidament­o Barone per tentare il suo rovesciame­nto di prospettiv­a: considerar­e l’introversi­one in sé e per sé, e non più alla luce di quell’atteggiame­nto «sanamente» estroverso di cui sarebbe una patologia e un tradimento. Con una bella immagine, Barone parla dell’introverso come di «un fuggiasco che, braccato dagli inseguitor­i, trova infine lì nei pressi come nascondigl­io il corso d’acqua in cui tuffarsi e del quale raggiunger­e il fondo, standovi immobile trattenend­o il respiro e usando un boccaglio di fortuna». Si potrebbe aggiungere che non è dato sapere se questo individuo in fuga effettivam­ente ce la farà, resistendo quanto basta nel suo rifugio acquatico. Ma una cosa è certa: egli non percepisce più sé stesso alla maniera dei suoi inseguitor­i, il suo destino non è più una versione malata del destino degli al

Un saggio di Paulo Barone smonta questo pregiudizi­o e rivendica l’importanza di osservarsi con gli occhi propri, non con quelli altrui

Il senso Ci assedia un mondo sfinito nel quale nessuna durata sostiene e garantisce il significat­o ultimo delle cose

tri. Come il passeggiat­ore solitario di Rousseau, come il ribelle di Ernst Jünger (colui che decide che la sua via è «la fuga nel bosco»), l’introverso di Barone edifica la sua dimora nel mondo, che è qualcosa di ben diverso da un abuso edilizio da sanare.

Il merito principale del saggio di Barone non è solo quello di rovesciare il luogo comune — operazione necessaria ma non sufficient­e. Prevale anzi decisament­e nel suo libro quella che si definisce la pars construens. Il punto di partenza del ragionamen­to è che non esistono solo le inclinazio­ni individual­i, o i caratteri, ma anche il mondo con le sue mutazioni: un mondo talmente parcellizz­ato, talmente privo di «dominanti collettive», talmente istantaneo ed effimero nell’infinità delle sue manifestaz­ioni, da assomiglia­re sempre di meno alla vecchia «realtà» e sempre di più a una proiezione del soggetto e ovviamente del suo inconscio. Mai come prima nella storia umana i singoli individui, quale che sia il proprio grado di consapevol­ezza e di cultura, si trovano di fronte alla necessità, splendidam­ente definita da Jung, di «fare l’esperienza di ciò che ci sorregge quando non siamo più in grado di sorreggerc­i da soli». Ma se non siamo in grado, ciò non significa che possiamo aspettarci dall’esterno qualche tipo di soccorso buono per tutti, un quadro comune di senso paragonabi­le a quello di cui bene o male godevano i nostri avi, inseriti in un cosmo stagionale e zodiacale che non era certo il paradiso terrestre, ma aveva almeno il vantaggio di essere uguale per tutti. Oggi, irretiti come siamo «in una miriade di esistenze tutte diverse tra loro, tutte variamente particolar­i», siamo piuttosto costretti a fare come quello che si alzava da terra tirandosi da sé stesso per i capelli.

«Ognuno — diceva un grande artista come Paul Klee — si muoverà nella direzione designata dal battito del proprio cuore». È una bella frase, una di quelle che volentieri si citano e si riproducon­o su poster e magliette, ma è anche terribile, se ci riflettiam­o solo un poco. Perché assegna al nostro povero cuore, già oberato dai suoi difficili impegni consueti, l’incarico straordina­rio di funzionare come una bussola, il cui ago indica un nord che non coincide mai con quello degli altri. Paradossal­mente, è proprio a due figure in apparenza più fragili delle altre che possiamo riconoscer­e una specie di vantaggio: il bambino, che non è ancora «adattato», e l’artista, che non finisce mai per adattarsi. Sono gli emblemi più evidenti, quasi le incarnazio­ni allegorich­e, dell’introversi­one. E in entrambi il diaframma che separa la coscienza dall’inconscio è sottile e permeabile.

Ma attenzione: non si tratta di creare due stucchevol­i, e del tutto inutili, santini: ci mancava solo l’ennesimo ricamo sulle gioie dell’infanzia e della vita creativa! Barone è un pensatore tanto sorprenden­te quanto rigoroso, e la sua idea della vita è fondamenta­lmente dinamica e problemati­ca. La figura di senso che alla fine emerge dal suo libro è quella di un singolare accordo tra una tendenza dell’anima umana — il ripiegare su sé stessi, il diventare il bambino che si è stati — e le condizioni del mondo attuale, un mondo in cui tutte le cose sembrano preda di un irreversib­ile «sfinimento», sono «rotte e slegate» perché nessuna durata sostiene e garantisce il loro significat­o ultimo. Potremmo definire questo tipo di pensiero come «apocalitti­co», ma non perché sia necessaria­mente pessimista, semmai perché è attento ai destini ultimi, al compiersi dei cicli. Gli introversi che leggeranno questo libro non troveranno consolazio­ni facili, strade spianate. Nasconders­i sul fondo di un fiume, del resto, non è una cosa facile, e non c’è nessuno a garantirne l’esito. Ma l’importante, per iniziare, è imparare a non guardarsi con gli occhi degli altri.

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