Corriere della Sera - La Lettura
Le ragioni dell’introverso
Nel nostro contesto sociale, anzi social, i tratti caratteriali e psicologici di chi punta lo sguardo verso sé stesso sono oggetto di biasimo collettivo
Quando parliamo di un carattere «introverso», o di una tendenza dominante all’«introversione», in genere non stiamo evocando qualcosa di auspicabile per noi o per i nostri cari. Appresa in un modo o nell’altro fin dall’infanzia, la definizione dell’uomo come animale sociale è, prima di ogni altra cosa, rassicurante. Da sociale a social, poi, il passo è ormai così breve da risultare ahimè impercettibile alla stragrande maggioranza. La connotazione negativa, o addirittura patologica, dell’introversione è simile a quella che riguarda i concetti di egoismo, di narcisismo, di perdita del senso della realtà e dell’empatia. Il gregge umano non si regge semplicemente sull’istinto: esige da ogni singola pecora attenzione e partecipazione, e guarda con sospetto ogni ripiegamento su sé stessi, come se si trattasse di una vera diserzione.
Non ignora affatto queste attendibili premesse empiriche Paulo Barone, psicoanalista junghiano e pensatore esperto di filosofia indiana, autore di un breve e illuminante saggio provocatoriamente intitolato Il bisogno di introversione .Ma la posta in gioco più preziosa del pensiero non consiste proprio nella possibilità di scardinare le abitudini e i giudizi più consolidati? Non è forse un caso che ai nostri giorni (e non solo in Italia) siano gli psicoanalisti ad assumersi il compito, tutt’altro che facile, di tentare dei rovesciamenti nell’interpretazione dei concetti più comuni, dal positivo al negativo o viceversa. In un saggio di qualche anno fa, Massimo Recalcati si è scagliato Contro il sacrificio, parola che emana un fin troppo sospetto e stucchevole odore di santità. Vittorio Lingiardi invece ci ha invitato, in Arcipelago N, a considerare gli aspetti positivi del narcisismo, che la morale corrente tratta più o meno come un crimine e un gravissimo capo d’accusa. Per quel che vale, mi sono fatto un’idea su questa inclinazione eversiva dei terapeuti della psiche (già abbastanza evidente in Sigmund Freud): assomigliano per molti versi ai filosofi ma la loro materia prima, per così dire, non è l’«uomo» o il «soggetto», ma il singolo individuo, unico e irripetibile nel suo venire al mondo e nel suo disperato tentativo di trovarvi un orientamento. E la filosofia del singolo, se può concepirsi un tale ossimoro, è una macchina che funziona a modo suo, se vogliamo concedere che funzioni in qualche modo: l’individuo in carne e ossa è l’unico luogo del mondo in cui una cosa non esclude il suo contrario, alla faccia di Aristotele.
Se il titolo del saggio di Barone, che postula addirittura un «bisogno» di introversione, è provocatorio, rincara la dose il sottotitolo: La vocazione segreta del mondo contemporaneo. Barone non si nasconde, e non nasconde ai suoi lettori, che su questa vocazione pesano forti sospetti. Per noi moderni, «la società è sacra», e lo stesso sguardo psicoanalitico, da sempre attento al «principio di realtà», non concede molta indulgenza al ripiegamento all’interno di sé stessi. Secondo Carl Gustav Jung, autore nel 1916 di un saggio dal titolo più che eloquente, Adattamento, guai al carattere introverso, centrato sul riflesso interiore che gli stimoli esterni provocano in lui, se non ha poi nulla da offrire ai suoi simili in cambio! Come a dire: solo al genio artistico, o al grande inventore, forse al mistico visionario, è concesso di volgere le spalle al mondo. Altrimenti, in questa economia della partecipazione, non si è che «un parassita pieno di boria».
Ma c’è di più: come nota sottilmente Barone, nella cultura dell’estroversione che domina l’Occidente moderno, l’introverso si identifica con l’«immagine prevenuta e scadente» che gli altri si fanno di lui, mancando, appunto, di un’adeguata immagine di sé e del suo destino. È un tema, questo accennato da Barone, declinato in innumerevoli variazioni dal romanzo moderno. Vengono subito in mente le pagine in cui Marcel Proust, all’inizio della Recherche, racconta l’amore per la lettura del protagonista, e la necessità di isolamento che comporta, come fosse un vizio e una colpa nei confronti di quella società in miniatura (ma non meno esigente e gelosa del transfuga) che è la famiglia. Il chiavistello della porta del bagno, ricordato dal grande romanziere, è il simbolo dell’estrema roccaforte in cui l’introverso affronta un assedio al quale, prima o poi, è destinato a soccombere: non tanto e non solo per la forza degli assedianti, ma perché lui stesso non si conosce, e non sa riconoscere fino in fondo la legittimità del suo desiderio.
Eppure, a saper leggere lucidamente e senza pregiudizi i segni dei tempi, si può iniziare a ipotizzare che il ripiegamento in sé stessi, lungi dal configurarsi come l’eterna colpa del carattere asociale e infantile, sia una strada tutt’altro che insensata da percorrere e non una deviazione dalla via maestra che al massimo può essere perdonata. È proprio questo il punto archimedico su cui fa affidamento Barone per tentare il suo rovesciamento di prospettiva: considerare l’introversione in sé e per sé, e non più alla luce di quell’atteggiamento «sanamente» estroverso di cui sarebbe una patologia e un tradimento. Con una bella immagine, Barone parla dell’introverso come di «un fuggiasco che, braccato dagli inseguitori, trova infine lì nei pressi come nascondiglio il corso d’acqua in cui tuffarsi e del quale raggiungere il fondo, standovi immobile trattenendo il respiro e usando un boccaglio di fortuna». Si potrebbe aggiungere che non è dato sapere se questo individuo in fuga effettivamente ce la farà, resistendo quanto basta nel suo rifugio acquatico. Ma una cosa è certa: egli non percepisce più sé stesso alla maniera dei suoi inseguitori, il suo destino non è più una versione malata del destino degli al
Un saggio di Paulo Barone smonta questo pregiudizio e rivendica l’importanza di osservarsi con gli occhi propri, non con quelli altrui
Il senso Ci assedia un mondo sfinito nel quale nessuna durata sostiene e garantisce il significato ultimo delle cose
tri. Come il passeggiatore solitario di Rousseau, come il ribelle di Ernst Jünger (colui che decide che la sua via è «la fuga nel bosco»), l’introverso di Barone edifica la sua dimora nel mondo, che è qualcosa di ben diverso da un abuso edilizio da sanare.
Il merito principale del saggio di Barone non è solo quello di rovesciare il luogo comune — operazione necessaria ma non sufficiente. Prevale anzi decisamente nel suo libro quella che si definisce la pars construens. Il punto di partenza del ragionamento è che non esistono solo le inclinazioni individuali, o i caratteri, ma anche il mondo con le sue mutazioni: un mondo talmente parcellizzato, talmente privo di «dominanti collettive», talmente istantaneo ed effimero nell’infinità delle sue manifestazioni, da assomigliare sempre di meno alla vecchia «realtà» e sempre di più a una proiezione del soggetto e ovviamente del suo inconscio. Mai come prima nella storia umana i singoli individui, quale che sia il proprio grado di consapevolezza e di cultura, si trovano di fronte alla necessità, splendidamente definita da Jung, di «fare l’esperienza di ciò che ci sorregge quando non siamo più in grado di sorreggerci da soli». Ma se non siamo in grado, ciò non significa che possiamo aspettarci dall’esterno qualche tipo di soccorso buono per tutti, un quadro comune di senso paragonabile a quello di cui bene o male godevano i nostri avi, inseriti in un cosmo stagionale e zodiacale che non era certo il paradiso terrestre, ma aveva almeno il vantaggio di essere uguale per tutti. Oggi, irretiti come siamo «in una miriade di esistenze tutte diverse tra loro, tutte variamente particolari», siamo piuttosto costretti a fare come quello che si alzava da terra tirandosi da sé stesso per i capelli.
«Ognuno — diceva un grande artista come Paul Klee — si muoverà nella direzione designata dal battito del proprio cuore». È una bella frase, una di quelle che volentieri si citano e si riproducono su poster e magliette, ma è anche terribile, se ci riflettiamo solo un poco. Perché assegna al nostro povero cuore, già oberato dai suoi difficili impegni consueti, l’incarico straordinario di funzionare come una bussola, il cui ago indica un nord che non coincide mai con quello degli altri. Paradossalmente, è proprio a due figure in apparenza più fragili delle altre che possiamo riconoscere una specie di vantaggio: il bambino, che non è ancora «adattato», e l’artista, che non finisce mai per adattarsi. Sono gli emblemi più evidenti, quasi le incarnazioni allegoriche, dell’introversione. E in entrambi il diaframma che separa la coscienza dall’inconscio è sottile e permeabile.
Ma attenzione: non si tratta di creare due stucchevoli, e del tutto inutili, santini: ci mancava solo l’ennesimo ricamo sulle gioie dell’infanzia e della vita creativa! Barone è un pensatore tanto sorprendente quanto rigoroso, e la sua idea della vita è fondamentalmente dinamica e problematica. La figura di senso che alla fine emerge dal suo libro è quella di un singolare accordo tra una tendenza dell’anima umana — il ripiegare su sé stessi, il diventare il bambino che si è stati — e le condizioni del mondo attuale, un mondo in cui tutte le cose sembrano preda di un irreversibile «sfinimento», sono «rotte e slegate» perché nessuna durata sostiene e garantisce il loro significato ultimo. Potremmo definire questo tipo di pensiero come «apocalittico», ma non perché sia necessariamente pessimista, semmai perché è attento ai destini ultimi, al compiersi dei cicli. Gli introversi che leggeranno questo libro non troveranno consolazioni facili, strade spianate. Nascondersi sul fondo di un fiume, del resto, non è una cosa facile, e non c’è nessuno a garantirne l’esito. Ma l’importante, per iniziare, è imparare a non guardarsi con gli occhi degli altri.