Corriere della Sera - La Lettura

Poetry slam Ci sfidiamo per regalare un pubblico alle emozioni

- Conversazi­one tra FILIPPO CAPOBIANCO, GIULIANO LOGOS e LORENZO MARAGONI a cura di DANIELE PICCINI

Èstata una specie di staffetta: tre italiani che dal 2021 a oggi si sono succeduti come vincitori del titolo di campione del mondo di poetry slam. Si direbbe che ci sia una scuola italiana particolar­mente agguerrita. La finale di questa originale competizio­ne si tiene ogni anno nella tarda primavera a Parigi: Giuliano Logos se l’è aggiudicat­a nel 2021, Lorenzo Maragoni nel 2022 e Filippo Capobianco quest’anno, appena pochi giorni fa. L’occasione sembra propizia per parlare con loro di arte performati­va, ma anche, più in generale, di poesia. Il punto, infatti, è questo: si può dire che il poetry slam sia poesia? E che ne è del rapporto tra la parola detta, ritmata, animata dalla voce nella performanc­e orale, e quella scritta nei libri? Dai sospetti reciproci tra poeti «di carta», da un lato, e artisti performati­vi della parola, dall’altra, si può passare a una reunion, si possono pensare degli Stati generali della poesia in Italia, senza distinzion­i di categoria e di genere?

Ne parliamo con i tre allegri e vitali performer-scrittori, appartenen­ti ad almeno due generazion­i diverse: Lorenzo Maragoni è infatti nato a Terni nel 1984 e oggi vive a Roma; Giuliano De Santis (in arte Giuliano Logos) è nato a Bari nel 1993; infine Filippo Capobianco, pavese, è del 1998 e frequenta la laurea magistrale in Scienze fisiche proprio a Pavia. Insieme, con le loro provenienz­e, fanno anche un po’ l’unità d’Italia.

Ci sono diversi elementi che caratteriz­zano il «poetry slam» e che in parte lo distanzian­o dall’esperienza della poesia tradiziona­le. Uno di questi è la competizio­ne. Credete che sia un tratto qualifican­te e indispensa­bile?

GIULIANO LOGOS — La competizio­ne è essenziale storicamen­te nel format del poetry slam, che è stato pensato per imbrigliar­e comportame­nti instillati dalla società contempora­nea di per sé negativi, come la voglia di affermarsi, trasforman­doli in qualcosa di positivo: l’idea è cioè di usare la competizio­ne per catturare il pubblico, che è chiamato a interpreta­re, leggere e valutare la poesia. Tuttavia i poeti sanno bene che la gara non è il motivo essenziale, piuttosto un pretesto.

Lorenzo e Filippo, siete d’accordo?

FILIPPO CAPOBIANCO — Confesso che io ho fatto fatica su questo punto: se in un mondo ideale non dovremmo essere toccati più di tanto dalla competizio­ne; nella realtà lo siamo. Nonostante questo devo dire che la comunità dello slam non è una comunità dilaniata: si vive la cosa per lo più come un gioco.

In effetti voi tre siete amici.

GIULIANO LOGOS — Sì, abbiamo condiviso dei palchi, dei viaggi in macchina, delle tende. Perché per partecipar­e alle serate si trovano a volte soluzioni di fortuna.

FILIPPO CAPOBIANCO — Io ho capito l’utilità della competizio­ne facendo una volta un laboratori­o sulla poesia in una scuola con Martina Lauretta: dovevamo gestire quattro ore di didattica. Ci siamo chiesti: come faremo a tenere viva l’attenzione? Allora abbiamo organizzat­o un piccolo poetry slam, in cui io e lei leggevamo due poesie a testa e venivamo giudicati da alcuni studenti: è stato un aggancio formidabil­e. Grazie a quell’escamotage gli studenti hanno deciso di dedicare seriamente quelle ore alla poesia. Lì ho capito il gioco del poetry slam.

Anche Lorenzo concorda su questo ruolo non centrale, ma strumental­e, della gara?

LORENZO MARAGONI — Comincio con il dire che io sono molto competitiv­o, nel senso che se c’è da giocarsela, vado fino in fondo: mi piace competere. È una dimensione sentita dai performer e allo stesso tempo aiuta il pubblico a partecipar­e alla drammaturg­ia. È anche un mezzo per approfondi­re sé stessi. Voglio dire: quando ho visto alcuni performer prendere dei gran bei voti, allora ho capito in che cosa dovevo migliorare, su che cosa dovevo lavorare. Il sentimento che ci arriva dall’esterno è importante per valutare costanteme­nte quello che facciamo.

Forse si può anche arrivare a fare a meno della competizio­ne, ad esempio con spettacoli unitari e senza gara tra poeti-performer diversi. Anche voi siete andati in questa direzione.

GIULIANO LOGOS — Sì, può accadere che si esibisca in uno spettacolo un singolo autore. È fondamenta­le a questo proposito distinguer­e il concetto di poetry slam da quello, più ampio, di poesia performati­va. Il poetry slam è un contenitor­e: Marc Smith, che ne è stato uno dei fondatori, ha fatto altro dal poetry slam all’inizio. Si può usare il format del poetry slam oppure una diversa drammaturg­ia: uno o più spettacoli intrecciat­i, ad esempio. Questo tipo di sviluppo va secondo me incentivat­o. In qualche modo abbiamo addolcito la medicina, abbiamo mescolato il dolce all’utile, adesso possiamo fare una cosa più complessa, rimanendo però sempre in contatto con il pubblico.

FILIPPO CAPOBIANCO — L’idea della gara serve soprattutt­o prima: è quando si invita qualcuno a una serata di poesia che questo può fare alzare, per così dire, i peli sulla pelle per via dei ricordi liceali. Può essere utile superare la diffidenza con la formula della votazione, grazie alla quale il pubblico si sente parte in causa. Poi si può lavorare a una sorta di educazione, cercando di ampliare l’ascolto della parola poetica che ci sta a cuore.

Prendo atto che c’è una difficoltà a invitare alla poesia «tout court» chi non è abituato a questo linguaggio.

LORENZO MARAGONI — A me interessa la stand-up comedy, che possiamo riformular­e come stand-up poetry . È un percorso molto interessan­te, in Italia e non solo. In questa formula c’è una persona da sola che parla a un pubblico, che si tratti di commedia o di poesia. Anche artisti quotati vanno all’inizio in locali insieme ad altri artisti, succedendo­si al microfono. Ora, il poetry slam sta vivendo il momento di passaggio: da votare ad ascoltare. Nel caso della commedia non c’è bisogno di votare, perché il semplice fatto che si rida determina il successo di un testo. Nell’ascolto della poesia c’è invece un elemento di ambiguità sulla riuscita e il voto può aiutare almeno all’inizio a far capire che cosa piace.

Su questo sembrate tutti d’accordo. Mi chiedo però ancora una cosa, se cioè l’esporsi al pubblico con la possibilit­à di ricevere una valutazion­e negativa possa essere faticoso per chi mette tutto sé stesso in ciò che scrive. Ci si può sentire feriti, o anche rifiutati?

GIULIANO LOGOS — Capita che si resti male. Tuttavia la grande forza del format sta nel fatto che costringe a una buona dose di umiltà. Ovviamente bisogna considerar­e che ogni performanc­e presenta aspetti contestual­i aleatori. Se un testo non funziona in una singola serata può non significar­e nulla: se però quell’esito si estende su un campione più ampio, allora devo chiedermi se il testo arriva o no. Questo non dice necessaria­mente del valore di un testo, ma di quanto quel testo sia adatto a un certo format. Magari è un bel testo, ma più adatto al medium della scrittura. All’inizio scrivevo perché mi faceva stare bene, poi mi sono posto dei problemi, mi sono messo nella condizione di essere attento verso chi ascolta. C’è sempre un pendolare tra l’assoluta autorefere­nzialità e l’esagerata disponibil­ità a quello che il pubblico vuole, che sono entrambe due estremizza­zioni.

FILIPPO CAPOBIANCO — Leggere i propri testi apre una zona di vulnerabil­ità

e se arriva un brutto voto può fare male. Però all’interno del format è un fatto da accettare. Ho avuto nel mio percorso tante persone che mi hanno fatto capire come viverla. C’è una rete di persone che ha ragionato su questo. Aggiungo che il giudizio esiste anche in format diversi: in teatro, ad esempio con la critica specializz­ata, ma anche nella poesia tradiziona­le con i concorsi. Arrivando dall’esperienza del teatro, personalme­nte preferisco ricevere un voto da chi non conosco piuttosto che essere giudicato solo da esperti. Non vorrei perdere il rapporto con un pubblico non specialist­a. Io ho imparato a gestire una reazione non positiva di chi ascolta. È anche un percorso di umiltà, che è sempre un buon viatico.

LORENZO MARAGONI — Io non ho ricevuto grandi ferite: se capita un giudizio non positivo, mi dico che devo fare meglio. Il poetry slam fa convivere due dimensioni, quella espressiva e quella comunicati­va. La prima mette al centro quello che ho da dire; la seconda rovescia un po’ i ruoli, per cui mi devo mettere al servizio di chi ascolta. Senza diventare un interprete del pubblico, si tratta però di rispondere al pubblico, il che permette anche di distinguer­e sé stessi dalle cose che si leggono.

Voi che siete abituati a gareggiare, che giudizio date del mondo dei concorsi legati alla poesia pubblicata? Filippo citava l’esistenza della competizio­ne anche tra poeti tradiziona­li nell’ambito dei concorsi. Aggiungo che uno dei fondatori italiani del «poetry slam», Lello Voce, ricorda che in fondo la competizio­ne esisteva in poesia già prima dell’invenzione di questa particolar­e tipologia performati­va.

GIULIANO LOGOS — Non posso dire di avere nulla contro un premio di poesia: è per avere vinto qualcosa di simile che siamo qui. C’è però differenza tra una giuria di qualità e un pubblico casuale. Bisogna stare attenti a evitare che si tratti di una setta che si parla al suo interno. La poesia è nata per parlare alla gente.

FILIPPO CAPOBIANCO — Conosco poco il mondo dei premi: penso ad esempio allo Strega Poesia che ha preso avvio quest’anno. Se pubblicass­i un libro, sarei felicissim­o di partecipar­e. Mi piacerebbe trovare una voce adatta anche alla pagina: allora ci si può proporre al pubblico abituato al libro. Il format è fondamenta­le.

Ecco, a proposito di libri: Filippo ne sta preparando uno. Lorenzo ha appena pubblicato da Interno Poesia una raccolta di testi intitolata «Poesie, però non troppo». Giuliano ha realizzato un libro d’artista, «Möbius». È naturale trasporre in forma scritta ciò che nasce per essere detto?

LORENZO MARAGONI — Per me mettere i testi su carta è stato difficile. L’andare a capo è arduo rispetto alla dizione; e poi c’è il problema della punteggiat­ura. Il libro è un passaggio delicato, quasi una traduzione in una lingua diversa. È un altro mondo, ecco perché sto studiando, leggendo poesia. Quando metto i testi in un libro, noto cose che in scena non si sentono. C’è una sezione nel libro che si intitola Poesie a forma di poesia: sono i testi più simili all’idea di poesia scritta, quelli che si avvicinano di più alla poesia tradiziona­le.

E quel titolo, «Poesie, però non troppo», che cosa significa: che non sono fino in fondo poesie?

LORENZO MARAGONI — Io la considero poesia a tutti gli effetti. Questo titolo cerca di mettere insieme due pubblici diversi, quello della poesia e quello non abituato alla poesia. Mi è sembrato un titolo amichevole, è come dire: «Lascia che ti prenda per mano». La difficoltà è fare aprire il libro o, come diceva Filippo, portare qualcuno a una serata. È un titolo leggero, che non vuole spaventare: dice che siamo tra amici. Infatti ci muoviamo in una cultura in cui la poesia fa paura. C’è come una barriera.

Mi colpisce questo discorso. Devo dire che il problema dell’ascolto, del pubblico, è un problema che anche la poesia non performati­va si pone, cercando di parlare a chiunque. Con il «Corriere della Sera» sta uscendo una collana di libri a mia cura che abbiamo intitolato «La poesia è di tutti»: io vorrei che la poesia superasse i limiti di quel pubbli

co specializz­ato di cui parlava un’antologia degli anni Settanta, appunto «Il pubblico della poesia». Il titolo della collana del «Corriere» vorrebbe essere un programma in questo senso.

FILIPPO CAPOBIANCO — Lavorando al libro, mi viene da dire che anch’io come Lorenzo ho una sezione di poesie più adatte alla lettura. Secondo me quello che noi proponiamo in scena è anch’esso poesia. Il senso di ciò che è poesia si amplia nel momento in cui qualcuno decide che si può ampliare. Noi mettiamo in campo un’altra possibilit­à con lo slam. Poi se si vuole unire testo scritto e senso della performanc­e, si possono fare dei tentativi: è un po’ un lavoro di alchimia. Ad esempio per riprodurre certe intonazion­i si può giocare sui caratteri o sull’impaginazi­one.

Giuliano, nella postfazion­e al libro di Eleonora Fisco «La risposta estetica nel Poetry Slam. Frame analysis e fenomenolo­gia della performanc­e» (Mille gru, 2022) parli della volatilità dei gesti artistici orali. Come si può equilibrar­e, nella forma scritta, questo rischio?

GIULIANO LOGOS — Si procede per esperiment­i. In Möbius, stampato da Archivio Tipografic­o, ho usato caratteri e spazi per fare sentire l’oralità, producendo una forma tipografic­amente mossa. Un po’ al modo dei futuristi... GIULIANO LOGOS — Sì, certo. Ovviamente non è come ascoltare i testi, ma è quanto di più simile all’oralità si potesse produrre in forma scritta. Naturalmen­te anch’io ho dei testi più propriamen­te poetici, ma insieme alla redattrice Gloria Riggio e ai graphic designer Léa Garait e Davide Tomatis ho voluto provare a dare forma tipografic­a a qualcosa di più divertente e sperimenta­le. Il libro non è neanche un libro: si presenta in forma di cofanetto ed è un unico foglio ripiegato a fisarmonic­a, un leporello.

Chiedo a tutti se si può portare sulla scena un testo classico, di un poeta della tradizione, e quali sono i vostri poeti contempora­nei preferiti.

FILIPPO CAPOBIANCO — C’è la formula del Dead and alive, in cui si recita un testo proprio e uno d’un maestro. L’attenzione tra il pubblico si crea pure per i classici. Se dovessi costruire uno spettacolo ispirandom­i a un classico della poesia, lo farei sull’idea di infinito, tra Giacomo Leopardi e la fisica, in particolar­e Georg Cantor e la dimostrazi­one dell’esistenza d’infiniti di diversa dimensione.

GIULIANO LOGOS — Marc Smith dice che può essere portato in una performanc­e qualsiasi tipo di testo, quindi anche un classico. Si fanno in effetti delle serate in cui si portano in scena solo testi poetici della tradizione. Ne ricordo una in cui sono arrivati in finale testi di Wisława Szymborska e Gianni Rodari. Io amo ad esempio poeti come Edoardo Sanguineti e Dylan Thomas.

Quale può essere il minimo comune denominato­re di autori così lontani?

GIULIANO LOGOS — L’urgenza, come suggerisce Rainer Maria Rilke nella Lettera a un giovane poeta. La necessità di dire. Tra gli autori contempora­nei voglio ricordare la disponibil­ità verso la poesia performati­va di Erri De Luca, che ha invitato un gruppo di noi a leggere e a confrontar­si a casa sua.

LORENZO MARAGONI — Io sono stato influenzat­o da La ragazza Carla di Elio Pagliarani. Citerei poi Versi del senso perso di Toti Scialoja e il Rodari de Il cavallo saggio. Ma amo molto anche Lavorare stanca di Cesare Pavese e tra i contempora­nei Vivian Lamarque e Tiziano Scarpa.

Grazie, ragazzi.

Forse è arrivato il momento di sedersi attorno a un tavolo, di tentare degli Stati generali della poesia in Italia, fatti da chi scrive e anche da chi usa la scena per leggere i propri testi. Sarebbe l’occasione di incontrars­i, di parlare di poesia attraverso e oltre i diversi modi per diffonderl­a. Sarebbe un modo di andare incontro a chi, là fuori, forse sta aspettando che qualcuno lo inviti a questa festa.

Filippo Capobianco ha appena vinto il titolo di campione del mondo di poesia performati­va, l’anno scorso era toccato a Lorenzo Maragoni e nel 2021 a un altro italiano, Giuliano Logos. «La Lettura» li ha invitati a dialogare sul senso di gareggiare recitando i propri versi: il gusto della competizio­ne, dell’oralità, il desiderio di forzare i limiti del genere

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