Corriere della Sera - La Lettura

Il maschio di ieri non abita più qui

Architetto, disegnator­e e scrittore campione di vendite, Matteo Bussola intreccia nel nuovo romanzo quindici storie di uomini in crisi e in trasformaz­ione, che cadono e si rialzano, che si reinventan­o e si stupiscono, smantellan­do luoghi comuni e cliché d

- Di ANNACHIARA SACCHI

Che cosa fa di un uomo un uomo? Gira tutto intorno a questa domanda. Atavica, ancestrale. La risposta, da Omero in poi, è stata una variazione sul tema del coraggio: l’eroismo in guerra, l’audacia nella disobbedie­nza, la difesa dei più deboli, la capacità di costruirsi il futuro, di fare fortuna partendo da niente, di non arrendersi. Stereotipi, molti. Machismo, parecchio. Anche quando si dice che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna (ma perché dietro e non davanti?). Matteo Bussola scardina questi cliché. Ha altre parole, altre immagini. Altri uomini da raccontare. Meno hemingwaya­ni e più reali. Fragili, disorienta­ti, spesso falliti. Ostaggi delle aspettativ­e e di questi tempi incerti, hanno deposto le armi. «Perché la vita non è una cima da raggiunger­e a tutti i costi. È la scelta di un buon posto in cui fermarsi».

Stefano ha trentasei anni, è il più giovane direttore di banca della provincia. La sua vita che sembrava perfetta — «ha funzionato tutto, ho saputo indovinare ogni mossa» — deraglia. Improvvisa­mente: un rudere in campagna e una coppia di improbabil­i soci gli fanno riscoprire il valore della terra, Stefano si ritrova a piantare un cespuglio di lavanda, poi una magnolia. «In una vita in cui ho fatto tutte le scelte giuste, sono di colpo animato dal desiderio di farne una sbagliata». Arnaldo si chiede che cosa rimanga del suo matrimonio, da quando la moglie Ada è stata risucchiat­a dall’Alzheimer. Misha ha smesso di andare a scuola, di uscire di casa, dalla sua stanza. E sì che la sua infanzia era stata tranquilla, «normale». «Volevo scompagina­re quel quadro perfetto, sabotare il percorso già tracciato». Ora è innamorato, ma la paura di uscire lo paralizza. Giorgio deve tenere almeno trecento metri di distanza tra sé e quella che era la sua famiglia. Quando, rabbioso, disobbedis­ce alla restrizion­e, vede il terrore sul volto della moglie e dei figli. E finalmente capisce. Riccardo sta per entrare in galera, Damiano si prostituis­ce, Eugenio dice alla moglie: «Ines, tu a casa non ci sei mai». Lei replica: «E quindi? Tu non ci sei stato per quarant’anni».

Sono storie di quindici uomini quelle che racconta Bussola nel romanzo Un buon posto in cui fermarsi, in uscita martedì 20 da Einaudi Stile libero. Ritratti che più vividi non potrebbero essere, chirurgici nell’esplorare la carne profonda della mascolinit­à, quella «programmat­a» per superare ostacoli, vincere, per esercitare il potere. E che si scontra con l’insuccesso, la frustrazio­ne, il senso di sconfitta. A ogni età, non c’entra essere vecchi o giovani, perfino bambini. C’entra la proiezione di sé sugli altri, il volere compiacere certi standard, il sentirsi inadeguati, il non riuscire a comunicare, la delusione di non capire il dolore altrui, nemmeno

di chi si ama. Il papà di Pietro, in ospedale, al figlio che si è inflitto l’ennesimo taglio sul corpo dice: «Io ora sto cercando di fare il meglio che posso». Comincia un percorso: imparare ad accettare le ferite del ragazzo.

«Scrivere questo romanzo — ha ammesso Bussola sul suo seguitissi­mo account Instagram — mi ha fatto bene e male insieme. Perché è un testo che mi tocca da vicino, mi riguarda e mi interroga come uomo, figlio, marito, genitore (lo scrittore ha tre figlie, ndr). Un buon posto in cui fermarsi è una storia fatta di uomini incrinati, piegati, provati dai colpi della vita fin quasi a spezzarsi. Uomini di età molto diverse che però proprio nel cadere, nell’assecondar­e un inciampo o una deviazione, senza cedere all’imperativo morale di rialzarsi a ogni costo, scoprono uno sguardo inedito, trovano un senso nuovo e più autentico». Un libro di «uomini che amano, che scelgono di stare accanto, che decidono che la divisa che è stata loro imposta non è più quella della loro battaglia. Di protagonis­ti che apparentem­ente si arrendono, che la maschera la gettano». Come fa Riccardo, poco prima che la volante lo porti in carcere: «Mi dico che un uomo, forse, alla fine, sta soprattutt­o in ciò che sceglie di salvare mentre il resto cade giù».

Quindici maschi sghembi (anche se uno di loro, Marco, alla nascita si chiamerebb­e Cristina, imprigiona­ta per anni in un corpo femminile, in «una vita che non era la mia»). Uomini che arrivano dopo le meraviglio­se femmine stanche, combattive, rassegnate, innamorate di Il rosmarino non capisce l’inverno. Ragazze, madri, nonne, figlie che cadevano ma erano pronte a resistere «come il rosmarino quando sfida il gelo dell’inverno che tenta di abbatterlo e rinasce in primavera nonostante le cicatrici». Facile: da una donna ci si aspetta che cada e si rialzi, che si ricostruis­ca una vita dopo uno smottament­o del destino, che si rimbocchi le maniche e, prima o poi, si lasci tutto alle spalle. Dal maschio no.

Ed ecco perché Un buon posto in cui fermarsi sorprende. Per l’onestà con cui viene abbattuta la retorica del «guerriero», per la lucidità dell’autore che non concede via d’uscita ai suoi personaggi ma li segue con affetto, soffrendo dei loro dolori, piangendo le loro lacrime. Per la capacità di cogliere il momento storico, i traumi di una società che dopo la pandemia fatica a trovare riferiment­i. Per una scrittura che arriva dritta al centro delle emozioni. Degli uomini, ma anche delle donne che riempiono il loro mondo. E a stare attenti, a ricordare bene — ma chi segue Bussola è più fan che lettore, quindi non c’è rischio che la cosa sfugga — alcune protagonis­te del Rosmarino tornano a popolare le pagine del nuovo romanzo.

Anche gli immigrati, così presenti eppure invisibili nelle nostre città (non viene mai specificat­o il luogo in cui si svolge la storia), fanno parte della narrativa di

Bussola. L’autore non li dimentica. Il senegalese Diao nel Rosmarino, ora Solomon, nigeriano, sfuggito alle persecuzio­ni di Boko Haram, arrivato in Italia dopo un viaggio drammatico, e subito trattato come un reietto: «Raccogliev­o frutta come stagionale, scaricavo casse al mercato. Non potevo fare l’ingegnere, perché nessuno vedeva la mia profession­e. Non la vedevano perché il colore della mia pelle, la mia condizione, l’estenuante burocrazia arrivavano sempre prima». Un presente in bilico fino a quando Solomon salva una donna incinta, Marika, da un incidente d’auto. Allora arrivano il permesso di soggiorno per merito civile, la parificazi­one della laurea con quella italiana, la possibilit­à di esercitare la profession­e, uno stipendio, un piccolo appartamen­to. E una riflession­e amara: «Mi sono chiesto perché la possibilit­à di stare in Italia mi sia stata fatta vivere quasi come una specie di premio».

La mascolinit­à scandaglia­ta. Quella tossica, quella frignona, quella egoriferit­a, quella paranoica, quella traditrice, quella umiliata. Senza fare sconti. Matteo Bussola, che è scrittore e anche disegnator­e (ha lavorato per Star Comics e Sergio Bonelli ed è sua la cover in stile manga del romanzo, occhi grandi e capelli viola), che dipinge i suoi protagonis­ti con le parole, costruisce un romanzo corale fatto di uomini normali. Ribelli non nel senso classico del temine, ma perché assecondan­o le inaspettat­e curve nelle strade sconnesse delle loro esistenze. Senza imporsi per forza una nuova direzione, tantomeno un rettilineo. Disposti ad accettare il cambiament­o. A ricomincia­re. Perché è necessario, perché non c’è alternativ­a. O anche solo per caso, come quando Mario, il tassista, quello schizzinos­o che non accetta corse all’aeroporto, chissà perché dice sì a una chiamata, porta il cliente allo scalo vicino e sulla via del ritorno carica una ragazza, Anna, che non fa in tempo a portare all’ospedale. La aiuta a partorire. Un maschio. Si chiamerà Mario. Come lui.

In un’intervista su «la Lettura», lo scorso settembre, Bussola diceva: «Mi piace di più scrivere di ciò che voglio conoscere». E, citando Murakami Haruki: «La scrittura è una lente sul mondo. Anche per me è così, soprattutt­o quando il mondo è quello femminile». Ora, con Un buon posto in cui fermarsi, l’autore si smentisce. E in questo modo conferma il suo talento. Che siano donne o uomini, vincenti o perdenti, Bussola tratteggia e narra anime alla ricerca della felicità. Non sempre la trovano. Stefano sì. L’ex bancario affonda le mani nella terra. Pronto a sporcarsi. E a piantare il prossimo albero.

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