Corriere della Sera - La Lettura
Un groviglio di destini lungo 68 anni
L’atto secondo della saga della famiglia Casadio si snoda fra il 1947 e il 2015: mette a fuoco figure già svelate ai lettori
Il primo sole dell’estate, «saga della famiglia Casadio» atto secondo, si potrebbe dire, riprendendo il sottotitolo del precedente romanzo di Daniela Raimondi, La casa sull’argine. E però non tanto come sviluppo, quanto come amplificazione interna.
Né poteva essere diversamente, considerando che in quel romanzo che copriva più di due secoli, dal 1800 al 2013, già s’erano affacciate figure qui riprese da vicino, come le coppie di sorelle (Adele e Neve), di gemelli (Guido e Dolfo) e delle loro figlie Norma e Donata (quest’ultima «la più discola», i cui capelli neri e i tratti scuri marcavano la matrice zingaresca da «indovini» della famiglia, mentre capelli chiari e tratti delicati di Norma dicevano dell’appartenenza all’altro ramo, dei «sognatori»); e vi avevano fatto capolino pure la figlia brasiliana di Adele, Maria Luz, e persino un accenno a Federica, figlia di Norma. Un dato, quest’ultimo, che di certo incuriosirà il lettore, a fronte qui dei ripetuti e fallimentari tentativi, comprese ben tre fecondazioni in vitro in un anno, di Norma di essere madre; al pari della già nota tragedia della cugina brigatista Donata, suicida nel Naviglio pur se incinta, probabilmente sentendosi responsabile della morte del compagno Stefano, «per uno stupido imprevisto nel piano» da lei ideato per un attacco armato.
Del resto non poteva essere diversamente per un romanzo che si dipana dal 1947 della nascita di Norma al 2015. È dunque un muoversi a raggiera quello che vien ridisegnando Norma: che nel primo volume si affacciava in prima persona solo nel Prologo e nell’Epilogo, mentre qui sviluppa, direttamente e indirettamente, un racconto in linea con la oggi diffusa modalità narrativa del «ritorno a casa», da cui ripartire a ricostruire il passato. Un «ritorno a casa» duplice: di Norma che, fuggita ventisettenne a Londra «senza capire che non era tanto il paese che non andava, quanto la mia vita», dove aveva ritrovato e sposato il compagno d’infanzia Elia, alla morte del padre torna presso la madre Elsa con cui non è mai andata d’accordo, nella Viggiù del loro trasferimento negli anni di fame del dopoguerra. Due anni di convivenza «più facile del previsto», evitandosi «con cura, senza confessarcelo». Finché la scoperta e l’aggravarsi del tumore, con tanto di «sentenza: “Tre, quattro mesi di vita”», spingono Elsa a un «ultimo atto d’amore» per un marito che non aveva esitato a un certo punto ad andarsene da casa per una sbandata: «Mi piacerebbe farmi seppellire accanto a tuo padre, non qui a Viggiù, tra le montagne». E dove si verifica un capovolgimento, con Norma «diventata madre» ed Elsa «diventata figlia». Norma in lotta con sé stessa per «abbattere il muro che negli anni si è eretto tra noi», sino ad ammettere che «solo capendo i miei errori ho iniziato a perdonare i tuoi, mamma» e persino «che ti somiglio più di quanto avrei voluto».
Momenti in corsivo, questi delle parole che Norma viene rivolgendo a una madre sempre più incosciente, nei quattro mesi, gennaio-maggio 2015, che fungono da perno del racconto. Perché è proprio il riepilogante fare i conti della propria vita, all’insegna del «quando ha iniziato ad andare tutto storto, mamma?», che rilancia il racconto, in terza persona, di quei quasi settant’anni trascorsi, con ampi squarci su passaggi ed anni cruciali della vita di Norma; e dove appunto si reincontrano personaggi della famiglia Casadio-Martiroli ben noti al lettore, cui vengono via via accompagnandosi quanti sono entrati nelle loro orbita: il piccolo Elia e i suoi genitori Ghelfa e Bicicli; i nuovi conoscenti londinesi (alcuni davvero notevoli, come la «eccentrica, sgargiante e teatrale» Duchessa russa e il marito musicista Rudy, «semplice e riservato»); mentre altre figure si fanno addirittura centrali, come proprio Maria Luz.
Trame impossibili da riassumere nei loro percorsi ora paralleli, ora convergenti per poi riallontanarsi: e alfine riavvicinarsi, come è proprio di un romanzo da storia d’un «amore per sempre» (di Elia e Norma, ma pure di Elsa e Guido). Con un doppio percorso: perché a quello sentito e intimo e sofferto dell’io narrante Norma, ben reso anche stilisticamente, fa da riscontro una linea narrativa più felice nelle dimensioni familiari, mentre, accentuando la dimensione dell’avventuroso e del magico, si fa talora persino dispersiva nella voglia di stupire col fantastico (penso al viaggio di nozze in Brasile di Norma ed Elia, con un tradimento dal quale nascerà una «bimba» magica, Renata, «fotocopia» di «Donata da piccola», che gioca con naturalezza con una nonna Adele che, «subito dopo essere spirata, si era sorpresa o, meglio, era inorridita, nell’accorgersi che era ancora in grado di vedere, di sentire le voci, e poteva muoversi su e giù per la casa senza toccare il pavimento...»). Si affacciano così anche risvolti d’appendice, tra innamoramenti fulminei con ingravidamenti al primo colpo (con conseguenti agnizioni: ben due); ma pure visioni e premonizioni, anche grazie a un allucinogeno estratto da una liana amazzonica; sino ad avere persino giocato il romanzo stesso su una misteriosa premonizione di Donata a Norma: «Tornerò attraverso l’uomo che amerai, e sarò il tuo dolore più grande».
Meglio di talune avventure, di certo le figure: specie femminili o di coppia (pensiamo a Ghelfa e Bicicli), figurando tra le meno convincenti proprio Elia, un po’ sfocato nelle sue testardaggini e contraddizioni. Sostanzialmente inutili poi i brevi inquadramenti storici, gestito con richiami un po’ di «bigino»; e fastidioso quel ribadire in traduzione i dialoghi in vernacolo.