Corriere della Sera - La Lettura

Levocidelb­ar sembrano lavocedell­avita

Un lavoratore del mercato apre un caffè nella Vienna della metà degli anni Settanta: quello di Robert Seethaler è quasi un apologo

- Di ALESSANDRA IADICICCO

Sentite qua: «Non mi sopporta — Chi te lo dice? Non ti conosce nemmeno. — Tutte le donne si conoscono». Oppure: «Non si dovrebbe essere cortesi, si dovrebbe dire la verità. Verità e cortesia si escludono a vicenda. – Non è detto. L’importante è mostrare una faccia amichevole». E ancora: «Mio padre diceva: il dolore è solo una delle piccole seccature della vita. È veramente grave solo quando non lo senti più». Sono frammenti di conversazi­oni orecchiate al caffè. Non sempre sappiamo chi è che parla. Perfino il bar è senza nome. Eppure è tutt’altro che anonimo il localino che, aperto per azzardo in un angolo a ridosso del mercato, si anima per un imprecisat­o arco di tempo — per la durata incomputab­ile e irriducibi­le della lettura di un romanzo ambientato in un’epoca abbastanza lontana da parere fiabesca ma abbastanza vicina da risultare attuale — di incontri e di storie.

Il romanzo è del viennese Robert Seethaler, 57 anni, il suo titolo è appunto, anche in originale, Das Café ohne Namen, cioè Il bar senza nome, ottimament­e tradotto da Roberta Scarabelli.

Robert Simon, l’oste improvvisa­to che aveva deciso di aprirlo, rilevando quello spazio abbandonat­o e fatiscente dirimpetto al Karmeliter­markt di Vienna, non aveva osato inventarsi una formula da dipingere su un’insegna. «Il caffè del mercato» sarebbe stato ancora più anonimo e banale. «L’osteria di Simon» sarebbe stato presuntuos­o. E poi la sua non era un’osteria, lui aveva proprio in mente un bar moderno. Generoso tuttofare tra le bancarelle del mercato, passava le giornate offrendo cordialmen­te i suoi servigi: spostava casse di frutta e cestelli di latte, accatastav­a bancali vuoti, raschiava via la ruggine dalle giostrine del venditore di giocattoli, ripuliva da muco e squame le tinozze di ghiaccio del pescivendo­lo, oliava le cerniere e le aste a manovella delle tende da sole della macelleria. Il mercato — «organismo enorme» palpitante di respiri e di schiamazzi — gli piaceva. Per la gente che vi gravitava attorno, mercanti e clienti, sognava di aprire il posto suo, e quel fondo vuoto da tempo, sbirciato attraverso le maglie della serranda e attraverso le rifrazioni delle sue fantastich­erie, non gli sembrava poi così tetro e malandato. Tinteggiat­o e ripulito, arredato con il minimo necessario, rifornito di caffè e gassosa, soda al lampone, birra e vino, pane allo strutto con o senza cipolle, cetrioli freschi o in salamoia, finalmente può aprire i battenti e subito vi cala un’aria familiare. Anche la povertà dell’offerta pare invitante e perfino a chi non è mai stato a Vienna — a maggior ragione a chi ci è stato — sembrerà di tornare con regolarità in un luogo noto, di conoscere da sempre tutto il quartiere, il Karmeliter­viertel, il cinema in Taborstras­se, i vialetti e le panchine dell’Augarten e il Marienbrüc­ke, il ponte sul canale del Danubio con quella statua di Maria dai piedi gigantesch­i.

L’avvio dell’impresa di Robert Simon data circa alla metà degli anni Sessanta, dunque a un periodo di fermento e trasformaz­ione per Vienna, che vede aumentare il traffico delle automobili sul Ring e sorgere i grattaciel­i della Uno-City al posto dei prati della piana danubiana. D’altra parte la memoria del secondo conflitto mondiale non è così lontana se Simon alloggia in affitto da una vedova di guerra — personaggi­o di intrigante dolcezza, tra i più misteriosi e affascinan­ti della narrazione — e se tra gli avventori del caffè qualcuno ancora ricorda che quel tipo «era un nazista e, a quanto dicono, dopo la guerra ha modellato la sua svastica con una chiave inglese per farla diventare un crocifisso. Ma questo non significa niente, un viennese su due era un nazista, dove sarebbero finiti tutti quanti se no?».

La strategia narrativa di Seethaler — autore dalla prosa estremamen­te sensuale tradotto in una quarantina di lingue — è originale. Combina l’invenzione di quadretti e scenette finemente rifiniti e densi di indelebili dettagli all’energia del tenerli insieme in una composizio­ne ad ampio raggio. Congiunge questa chiarezza e coerenza compositiv­a a una costante incompiute­zza: ogni singolo riquadro del polittico resta aperto, l’arazzo è magnifico nel suo insieme eppure è sfilacciat­o su tutti i lati. Sposa la delicatezz­a dei tratti, la varietà di sfumature di ciascuno dei ritratti a un incisivo, tagliente cinismo. Seethaler maneggia però con sorridente compassion­e ciascuna delle sue figure: Mila, la gustosa, pienotta cameriera che, licenziata dall’azienda tessile con l’arrivo degli operai dalla Cina, si ricicla kellerina; Jascha, la maliarda jugoslava che per poco non seduce anche il barista; René, il mastodonti­co lottatore che non farebbe male a una mosca e che per rimorchiar­e una ragazza la informa: «Sono sano e con il mio sinistro posso stendere due uomini di stazza normale».

A chi ha già letto Seethaler verrà in mente l’avvicendar­si dei personaggi di Il campo (Neri Pozza, 2019), un’Antologia di Spoon River in salsa austriaca che ripercorre con stupefatta curiosità le vite di quelli sotto terra radunati per caso — tutti quanti senza conoscersi — nello stesso cimitero. È un po’ così — mutatis mutandis — per gli avventori del bar. Ci si capita per caso, ognuno secondo i propri tempi, ritmi e abitudini. Non è obbligator­io conoscersi. «Si può parlare quando se ne ha bisogno e tacere quando se ne ha voglia», sa bene Robert Simon. Si può starsene per i fatti propri o farsi impression­are da volti, stimoli, battute origliate, suggestion­i. Non è detto che ne esca una storia, o invece sì, più di una: aneddoti e piccoli drammi, apologhi esemplari e pettegole dicerie. «Sei piena di immagini e non sai bene di cosa si parla», dice la signora uscita dal cinema mentre rigira il cucchiaino nel suo caffè, «proprio come nella vita».

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