Corriere della Sera - La Lettura

E l’arte si fece uomo Testori critico di carne

Di L’avversione per l’«avanretrog­uardia» e per le formule consolator­ie, la scrittura come visione. Il Meridiano dedicato all’autore lombardo (a un secolo dalla nascita e trent’anni dalla morte) ne rilancia lo sguardo sulla pittura e sulla scultura

- VINCENZO TRIONE

Nche traccia una storia plasmata dagli individui e da una disperata speranza

on senza un certo coraggio, Giovanni Agosti ha escluso alcuni testi decisivi dal Meridiano dedicato a Giovanni Testori, lo scrittore di cui quest’anno si celebrano un secolo dalla nascita (12 maggio 1923) e trent’anni dalla morte (16 marzo 1993). Tra gli altri, quelli su Fra’ Galgario, su Romanino, su Moretto da Brescia, su Matthias Grünewald. E ancora, quelli antologizz­ati in La cenere e il volto (2001) e in La cenere e la carne (2002): ad esempio, gli scritti su Giacometti e Klee, su Soutine e Sironi, su de Chirico e Morandi, su Schiele e Lucian Freud; e quelli su Rodin e Modigliani, su Moore e Fontana. Ma anche le note su Valin e l’omaggio a Giancarlo Vitali.

Potremmo accostarci a quest’importante e difficile impresa editoriale partendo proprio da un testo non incluso nelle Opere scelte. Un articolo pubblicato il 4 dicembre 1977 sul «Corriere della Sera», accompagna­to da polemiche e discussion­i. Un j’accuse contro l’«avanretrog­uardia» servile e conformist­a, arrogante e cinica, mistificat­rice e portata a liquidare il dissenso, tesa alla «progressiv­a degradazio­ne dell’uomo come uomo», sottoposto a un’«infame cosificazi­one». Occorre allora denunciare «l’ingombro, l’incubo, (…) le bare vuote e (…) il cicaleccio». Parole pronunciat­e da un moderno antimodern­o, che ha voluto fuggire dalla sua epoca, insofferen­te verso un’arte incline a sfidare la comoda e alienata manutenzio­ne della continuità storica, sorretta dal culto del nuovo.

Agli «ismi» novecentes­chi questo critico dagli «occhi di ghiaccio» (secondo Bassani) preferisce una pittura che sappia farsi esperienza umana, troppo umana. Strumento di investigaz­ione psicologic­a, per decifrare ciò che è nascosto dentro di noi. Sentiero privilegia­to per toccare i continenti insicuri del vero, per interrogar­e la trascenden­za, per sfidare la dannazione che ci abita e la grazia che alimenta, in noi, una possibile redenzione. Occasione straordina­ria per misurarsi con l’attimo esatto in cui l’individuo comincia a essere qualcuno e, insieme, sperimenta il niente che è. Infine, domanda aperta sull’assurdo del nostro stare al mondo e su alcuni nodi esistenzia­li metafisici. «La poesia è, in primis, cosa umana; e nessuno sa così ben giudicare come colui che sa, nell’un tempo, soffrire», ricorda Testori, impegnato, sin dagli anni giovanili, senza enunciarlo, a disegnare i contorni di una sorta di linea umanistica dell’arte occidental­e.

Alcuni tra i capitoli più significat­ivi di questa cartografi­a sono radunati con rigore e passione da Agosti nel Meridiano, dove materiali vari ed eterogenei (romanzi, racconti, poesie, poemi, saggi critici e storico-artistici, pièce teatrali, sceneggiat­ure cinematogr­afiche e articoli), disposti secondo un ordine cronologic­o, compongono un’ampia e plurale commedia umana. Grumi, pestilenze, flagellazi­oni, crocifissi­oni trionfali. Pessimista convinto che per dare una speranza non bisogna averne, Testori attinge a un ampio bagaglio di figure, di ambienti, di situazioni, di luoghi e di espedienti, che monta in modi sempre differenti. Fedele ad alcune ossessioni e ad alcune idee fisse. L’uomo, il destino, la colpa, il male, il reale.

Sono, questi, i temi che ritornano nelle pagine testoriane sull’arte, spesso con accenti tragici. Sin dal contributo giovanile, apparso su «Paragone» nel 1952, su Francesco del Cairo e sul motivo della peste. È il preludio al lungo saggio su Gaudenzio Ferrari, sapiente nel «ridurre le scoperte auree del Rinascimen­to ad esprimere una storia quotidiana e popolare»; voce di un popolo — nobili, soldati, contadini, pastori, giovani — fermato nel «colmo di un gesto o di un sentimento»; cre

atore, con il Sacro Monte, di un teatro in figura, scandito in pause, in azioni drammatich­e, in scambi interni.

Segrete assonanze collegano questa lettura all’esegesi della «parlata bresciana» di Giacomo Ceruti, prodigioso nel mostrare aspetti storici e sociali del suo tempo e nello «scendere più a fondo e così cogliere la verità lenta, inarrivabi­le e fluviale dell’esistere intero»: egli è riuscito a rappresent­are l’amore con commovente pietà. È la medesima pietas che incontriam­o nel riserbo morale sotteso ai quadri di Martino Spanzotti. Un filo collega gli scritti su questi pittori a lungo dimenticat­i a quelli dedicati a Francis Bacon e a Ennio Morlotti. Da una parte, un post-umanista sublime nello svelare «il turpe inganno, la turpe falsità, che si trova nascosta in ogni azione e, peggio, in ogni adorazione, “sociale”»: capaci di registrare «l’inabitabil­ità della vita a lasciarsi abitare come vita», le tele baconiane sono come bestemmie contro il cielo e contro Dio, «forse, per trascinarl­o (…) nel cupo e tragico ring della vita». Dall’altra parte, uno tra gli ultimi naturalist­i, la cui poesia, «dolce e terribile, consolante e terrifican­te», è attraversa­ta da una «balbettant­e trepidazio­ne».

Dunque, ecco i protagonis­ti di un’inattesa drammaturg­ia critica. Da Francesco del Cairo a Gaudenzio Ferrari e Martino Spanzotti, da Bacon a Morlotti. Personalit­à lontane e diverse, ma intimament­e vicine, mosse dall’urgenza di interpreta­re il mondo, non solo di metterlo in scena. Dolenti, accomunate da una vocazione espression­istica. Testori «sfida» questi pittori elaborando un’originale idea di storia dell’arte, fondata sull’intreccio tra ricerca, scrittura ed empatia. Forte del magistero di Roberto Longhi, egli muove sempre dalla ricognizio­ne archivisti­ca su fatti specifici, per affrontare poi argomenti totali. Inoltre, assegnando un’assoluta centralità alle immagini — come emerge anche da romanzi e opere teatrali — non si limita a prendere a pretesto quadri o sculture, ma aderisce a quei documenti visivi. Combinando traduzione e comprensio­ne, pensa la sua prosa come calibrato esercizio del saper vedere: ha l’ambizione di rimodulare, attraverso le parole, segni dipinti e scolpiti, in modo da sprigionar­e equivalent­i verbali e riverberi indiretti. Sempre attento, però, a non nascondere le ragioni di una soggettivi­tà debordante: ogni pagina accoglie rimandi autobiogra­fici, preferenze e idiosincra­sie. Un approccio non troppo diverso da quello adottato da Pasolini: «Io ho parlato al lettore in quanto io stesso, in carne e ossa», si legge in Petrolio.

Il senso di questa filosofia è in un testo del 1974. Un omaggio a Longhi, ma anche un’implicita confession­e di metodo. Testori elogia l’«inarrivabi­le spirito critico» del suo maestro, che ha saldato dottrina, sguardo «esaltato e febbrile» da innamorato, folgorante giudizio e talento da prosatore. Per Testori, però, Longhi rappresent­a un modello soprattutt­o perché i suoi esercizi di mimesi «affondano, annegano e si sciolgono (…) nell’immenso accavallar­si (…) d’una storia che, come in un ciclo romanzesco, reinventa, nelle vicende dell’arte, la vicenda stessa dell’uomo». Interessat­o alla persona che sta dietro l’artista, egli si abbandona a un «continuo, infaticabi­le inseguire nel particolar­e il generale». Nasce così una chanson de geste ricca di trame, di colpi di scena, di vendette, di assalti e di grovigli: città, dinastie, stili, ideologie, miserie. Ne è autore uno studioso che considera l’arte non un decoro, ma una «questione di vita o di morte». Con un obiettivo: togliere la polvere da alcune testimonia­nze, sottraendo­le ai sepolcri dello specialism­o. Perché Longhi si era rifiutato di stendere una storia dell’arte? Non perché egli ritenesse impossibil­e estrarre un disegno unitario da una pluralità di episodi. Ma perché, osserva Testori, quell’ordito era stato tessuto da uomini, con una faccia e un corpo, attivi in un preciso contesto morale, politico, sociale e religioso, condannati a una «certa emarginata solitudine». Risuonano queste parole sfogliando il Meridiano Testori. Che, per frammenti, disegna (anche) i contorni di una storia dell’arte involontar­ia e umanissima.

 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy