Corriere della Sera - La Lettura
Come camicie assassinate
Dedica un’emozionante personale a Doris Salcedo, «artivista» colombiana: mostra politica e poetica, denuncia di violenze e conflitti. Scarpe di persone scomparse, petali di rosa cuciti con filo chirurgico in una Sindone contemporanea
«Metti la tua bandiera a mezz’asta,/ memoria./ A mezz’asta,/ per oggi e per sempre»: i versi del grande poeta Paul Celan accompagnano perfettamente la straordinaria mostra alla Fondation Beyeler di Basilea che rappresenta, davvero, un urlo di dolore e un monito per risvegliare le coscienze di fronte al tormentato presente. Una mostra politica, certo. Ma soprattutto una mostra poetica. Doris Salcedo (Bogotá, Colombia, 1958), artista di fama internazionale (potentissimo il suo squarcio sul pavimento alla Tate di Londra nel 2022), è presente in Svizzera con un’emozionante personale di opere e installazioni che evocano un mondo di conflitti, violenze, soprusi.
È esattamente qui che risiede il coraggio di un’artista come Doris Salcedo: avere la forza di usare l’arte come arma di costruzione contro quello che Liliana Segre denuncia e chiama «indifferenza». Indifferenza di fronte alla memoria del passato, naturalmente, ma anche indifferenza di fronte alle atrocità del nostro tempo.
Ma è tutt’altro che una mostra angosciante quella di questa artista colombiana dagli occhi neri e profondi, che parla con lentezza, sempre consapevole che l’arte ha una funzione di testimonianza attiva, se non di diretta denuncia.
Proprio sulle pagine de «la Lettura» è nato un termine che caratterizza un modo di intendere il mondo: l’artivismo. Vincenzo Trione qualche anno fa costruì una mappa ideologica e culturale del sistema dell’arte teorizzando sostanzialmente un dato: «Gli artivisti si interrogano su alcune emergenze del nostro tempo. Aprono piste sulla superficie della cronaca. Si impegnano in atti concreti, coraggiosi, visionari. Per immaginare un altro presente». Arte, politica, impegno, dunque: (Artivismo è diventato un saggio pubblicato per Einaudi). Sicuramente Salcedo fa parte di questi artisti. E anche lei immagina un nuovo presente, portando la struggente forza della poesia nella critica alla società contemporanea.
Lo si è compreso già nell’ottobre dello scorso anno, quando sempre alla Fondation Beyeler è stata presentata la monumentale e potentissima opera Palimpsest (2013-2017): siamo di fronte a una stanza dove domina il vuoto, riempito simbolicamente dalle migliaia di vite invisibili di migranti scomparsi in mare e ricordati con una serie di nomi scritti che affiorano sulla pietra attraverso un sofisticato e invisibile sistema di epifanica scrittura con l’acqua. Nomi scritti in caratteri latini, talvolta anche sovrapposti ad altri, ad attestare un radicamento in lingue provenienti da tanti Paesi diversi e lontani. Nomi che lentamente affiorano e scompaiono per poi riapparire quasi per effetto di una prodigiosa marea della storia.
Doris Salcedo usa sofisticate tecnologie o semplici accostamenti di materiali poveri per scardinare la consuetudine delle visioni. E anzi, riesce a dare forma alla violenza e farci percepire la carne viva della sofferenza senza mai mostrarla: tutto è sotteso, evocato, immaginato. Ma nel silenzio ascoltiamo qualcosa di indicibile.
Proprio come nella prima installazione all’inizio della mostra: alcune pile di camicie bianche e una fila di letti in metallo. Siamo di fronte a un’atmosfera che evoca sofferenza. I telai dei letti sono avvolti da pelli di animali come bende per medicare le ferite. Le camicie impilate sono irrigidite col gesso e trafitte all’altezza del petto da lunghe aste di metallo. La violenza viene evocata così, con un semplice gesto. I corpi umani sono assenti, eppure quei corpi li percepiamo presenti, vivi, e con loro riconosciamo un sentimento lontano: quello codificato da Hannah Arendt, la «banalità del male». E che supera i confini del tempo.
Non a caso la genesi di questa ricerca dell’artista risiede nei massacri di lavoratori nelle piantagioni in Colombia. E se comunemente i capi di abbigliamento delle vittime costituiscono prove importanti quando si indaga sui crimini, qui i corpi vengono spogliati della loro individualità. E le pile allineate di varie altezze ricordano la registrazione ufficiale: la sterile conta dei morti. Senza alcuna emotività, senza partecipazione umana.
La pratica di Salcedo è indagare sulla memoria attraverso materiali semplici: mobili in legno, vestiti e aghi, erba, acqua, petali di fiori, capelli umani... Poi, attraverso inaspettate associazioni di oggetti e accostamenti contraddittori. Ma sempre con una ricerca minuziosa delle tecniche unita a elaborati lavori manuali.
Ne è esempio l’intallazione A Flor de Piel (2012): migliaia di petali di rosa sono cuciti insieme a mano con filo chirurgico e conservati attraverso un sofisticato processo inventato dall’artista. Il risultato è un grande mantello, una sorta di tappeto sospeso, denso di pieghe, in uno stato tra vita e morte. Petali fragili, petali che rischiano di lacerarsi al tocco. Ma anche puntuale metafora dell’esistenza umana. Questo lavoro è stato concepito riflettendo sulla vita di un’infermiera colombiana rapita e torturata a morte. Così A Flor de Piel si manifesta come un grandissimo sudario, una sorprendente Sindone.
La mostra si sviluppa attraversando Plegaria muda (2008-2010), dove percorriamo gli spazi tra una serie di tavoli sovrapposti uno sull’altro e rovesciati con in mezzo uno strato di terra. Si tratta di tavoli semplici, fatti a mano, capaci di evocare bare allineate come in un cimitero. Ma qui la salma è sostituita da corposi strati di terra che nel tempo sono germogliati con fili d’erba. Come rivela il titolo è una «preghiera silenziosa»: per i tanti giovani uccisi nelle strade di Los Angeles o per i morti uccisi dall’esercito colombiano. È come se fossimo di fronte a una fossa comune, dove l’unico simbolo di speranza risiede in tanti fragili fili d’erba capaci di superare la barriera del legno.
Come si comprende, le opere di Doris Salcedo richiedono anni di preparazione, un intenso lavoro fatto a mano, ricerca delle fonti storiche, ricognizioni accurate sul reale. Per esempio, Salcedo ha raccolto le scarpe di persone scomparse e le ha chiuse in nicchie scavate direttamente nel muro del museo (cucite poi con filo chirurgico) come nell’opera Atrabiliarios (1992-2004). Oppure, il lavoro Unland: la tunica dell’orfano (1997) in cui vediamo tre lunghi tavoli collocati in uno spazio vuoto. Guardando con attenzione ci si accorge che i tavoli sono assemblati da due diverse metà parzialmente incastrate l’una sull’altra. Ma l’inquietudine emerge quando ci si accorge che nel legno sono cuciti capelli umani. Il titolo La tunica dell’orfano cita una poesia di Paul Celan, in cui l’indumento materializza la connessione emotiva tra i vivi e i morti. E anche qui il riferimento è la storia di un bambino orfano che aveva assistito all’omicidio dei suoi genitori durante la guerra civile colombiana e da allora aveva sempre indossato lo stesso abito bianco cucito da sua madre.
Il risultato del pensiero di Doris Salcedo sono opere concettuali quasi sempre molto complesse, programmate in modo quasi ossessivo, sicuramente cariche di un fascino magnetico. Salcedo ci parla dell’atrocità del mondo, ma lo fa attraverso la delicatezza della poesia.
«Non ho mai visto un’artista che mette così tanto impegno e insieme un’attenzione ossessiva per ogni dettaglio», sottolinea il curatore Sam Keller. Ed è lei stessa a sottolineare la sua visione del mondo: «Quello che sto cercando di ottenere dai miei pezzi è quell’elemento che è comune a tutti noi. Quindi non sto narrando una storia in particolare. Sto solo parlando di esperienze. Parlo di vita».