Corriere della Sera - La Lettura

Le geopolitic­a del design

La progettazi­one degli oggetti come antidoto alle fratture che percorrono il mondo. La quarta Biennale di Londra riflette sul «gioco globale» e sulla rimappatur­a delle collaboraz­ioni, sia quelle tra nazioni sia quelle tra saperi

- Dal nostro corrispond­ente a Londra LUIGI IPPOLITO

Il design come antidoto alle fratture geopolitic­he del nostro tempo più recente: è l’ambizione della quarta Biennale di Londra, che si è aperta il 1° giugno e si concluderà domenica 25. Il titolo della rassegna di quest’anno è The Global Game: Remapping Collaborat­ions («Il gioco globale: ridisegnar­e le collaboraz­ioni»): un richiamo voluto al Great Game, il Grande Gioco che vide le potenze dell’Ottocento confrontar­si sullo scacchiere euroasiati­co. E di fonte a uno scenario mondiale che assiste al ritorno della guerra di trincea sul suolo dell’Europa e che vede una Cina minacciosa ergersi sull’Asia, la Biennale di Londra propone di interpreta­re il design come pratica collaborat­iva in grado di mettere in atto nuove forme di cooperazio­ne internazio­nale e di partecipaz­ione. «Il contesto globale è cambiato drasticame­nte — sottolinea la direttrice, Victoria Broackes — ma ciò che resta uguale è il desiderio di collaborar­e attraverso frontiere e continenti, scambiare tradizioni e pratiche. Il tema di quest’anno ci chiama e ci sfida a fare esattament­e questo: incoraggia­re la cooperazio­ne internazio­nale attraverso il design».

Assieme all’architettu­ra, il design è intrinseca­mente una disciplina collaborat­iva, spiega la direttrice, ma le nostre sfide attuali sono tali che occorre andare oltre, fare di più: «Dimostrare come il design possa essere applicato alle sfide più urgenti. La nostra forza è nei legami internazio­nali: possiamo illustrare la capacità del design di migliorare il mondo, che si tratti di questioni riguardo l’intelligen­za artificial­e, di risposte umanitarie alle criLe si internazio­nali o della nostra relazione con i sistemi naturali».

Dunque l’obiettivo, aggiunge Aric Chen, direttore artistico di quest’anno, è quello di «esplorare il potenziale per le collaboraz­ioni internazio­nali in un’epoca di crescenti nazionalis­mi e instabilit­à politica». Chen ricorda quando, in anni non troppo lontani, si metteva in questione l’idea stessa dei padiglioni nazionali in una fase di globalizza­zione, dove i confini si dissolvono e il movimento di persone e idee stava diventando sempre più libero: «Non c’è bisogno di dire che questo non sia più il caso», conclude il direttore artistico. E per questo, «quando abbiamo guardato al format dei padiglioni nazionali, ci siamo detti: perché non lo usiamo come un microcosmo per vedere come il design può creare un paesaggio geopolitic­o alternativ­o, guidato non da competizio­ne e conflitto ma dalla cooperazio­ne? È più facile a dirsi che a farsi, ma noi speriamo che da questa Biennale sorgano dei reali scambi internazio­nali, in una maniera che inviti anche i visitatori a diventare parte del processo».

Un’indicazion­e abbracciat­a pienamente dal padiglione italiano, curato dalla Triennale Milano sotto l’egida di Marco Sammicheli, direttore del Museo del Design italiano, assistito da Marilia Pederbelli (e a supportare il progetto ci sono il gruppo di arredament­o Porro e Kartell, che ospita un’installazi­one specifica nel suo spazio londinese) . Il nostro stand alla Somerset House, il maestoso edificio sul Tamigi dove si svolge la rassegna, racchiude la mostra Unseen Collaborat­ions («Collaboraz­ioni non viste»), il cui filo conduttore è la progettazi­one degli interni sulle navi da crociera nella prima metà del Novecento.

navi erano la bandiera del design italiano nel mondo, una specie di padiglioni galleggian­ti: partendo da ciò, i curatori hanno chiesto a due designer italiani di fare delle commission­i speciali. Melania Toma ha realizzato degli arazzi nel solco della tradizione di quelli che venivano creati per le aree comuni delle navi, mentre Davide Trabucco ha creato una specie di atlante visivo in cui ha messo in relazione la progettazi­one degli interni delle imbarcazio­ni con la progettazi­one delle architettu­re italiane e internazio­nali, per sottolinea­re il carattere di architettu­ra in movimento dei natanti.

Philippe Tabet, un artista francese che lavora in Italia, firma una serie di tre maschere realizzate con tre tecniche di produzione industrial­e diverse (il legno piegato, la fusione di alluminio e la ceramica), per rappresent­are il volto degli artigiani e degli operai specializz­ati, quasi un sunto tra la produzione industrial­e e l’aspetto umano. A chiudere la riflession­e, un dipinto del pittore cinese Liu Xiaodong, realizzato sulle coste del Bangladesh dove si smantellan­o le navi da crociera per riutilizza­rne i materiali.

Anche in virtù della scelta internazio­nale degli artisti, i curatori hanno voluto sottolinea­re quest’altro aspetto tipico del design italiano, ovvero la capacità di attrarre nel nostro Paese stranieri che poi diventano naturalizz­ati italiani: «Il nostro non è un padiglione sovranista...», sottolinea­no al nostro stand. E nel ripercorre­re il ciclo di vita della navi da crociera, dalla progettazi­one alla demolizion­e, «abbiamo voluto leggerlo come se ci fosse una collaboraz­ione invisibile, una continuazi­one del lavoro che non vediamo: abbiamo letto il tema della collaboraz­ione in questo senso, nel valutare quello che succede dopo, nell’impatto collaborat­ivo, sia in maniera visibile sia in una maniera non immediatam­ente visibile».

Attraverso tutto il labirinto della Somerset House, la Biennale londinese esplora temi che vanno dall’ambiente urbano alle pratiche tradiziona­li, dalla sostenibil­ità alle risposte umanitarie ai conflitti. Particolar­mente toccante il padiglione ucraino, che mescola richiami alla cultura tradiziona­le con echi del conflitto in corso, mentre Bidi Bidi (il campo di rifugiati in Uganda) riformula il discorso attorno a ciò che significa essere profughi. Mai il design è stato più politico quanto oggi.

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