Corriere della Sera - La Lettura

Il banjo ha l’anima nera

La performanc­e di premio Pulitzer: «Riscatto il passato»

- Di HELMUT FAILONI Rhiannon Giddens,

Rhiannon Giddens (1977) è una musicista che legge molto, che si documenta di continuo, che discute le versioni «ufficiali» del passato (americano e afroameric­ano) per restituirl­o poi all’interno dei propri progetti in maniera «più aggiornata e forse più aderente alla realtà», come dice lei stessa a «la Lettura» nel corso di una chiacchier­ata via Zoom tra l’Italia e gli Stati Uniti. Mattina da lei, pomeriggio da noi.

Giddens appare in schermo in modo informale, indossa una felpa in cotone con il cappuccio appoggiato sulle spalle. «Prima di collegarmi, stavo ascoltando un podcast di storia», confessa. «Non appena ha un minuto libero, ascolto, ascolto. È la mia passione». Lo conferma con un sorriso e un’alzata di spalle affettuosa e di profonda intesa, al di là del computer, anche il suo compagno di musica e di vita, il (bravo) polistrume­ntista siciliano Francesco Turrisi (appassiona­to conoscitor­e di tanti generi e periodi musicali, non ultimo il Seicento), con il quale Giddens si esibirà in duo in piazza Duomo a Spoleto il 6 luglio (ore 21.30).

La passione di questa musicista si muove con garbo e gentilezza in territori sonori dove i generi si sfiorano, si intreccian­o, si mescolano, si trasforman­o. Il suo interesse per la storia, insieme naturalmen­te a un talento musicale fuori dal comune, le ha fatto vincere il Premio Pulitzer 2023 per Omar, un’opera scritta assieme a Michael Abels e presentata in anteprima il 27 maggio 2022 al Festival di Spoleto Usa (fondato nel 1977 da Gian Carlo Menotti a Charleston, nella Carolina del Sud), gemellato con quello italiano.

Omar — definita dal «New York Times» un melting pot in cui confluisco­no bluegrass, inni popolari, spiritual e altro ancora — è un’opera basata sulla storia (vera e non romanzata) dello schiavo Omar Ibn Said strappato dall’Africa occidental­e e portato negli Stai Uniti. Nelle motivazion­i del premio si legge che questa di Giddens è «un’opera musicale

innovativa sugli schiavi portati in Nord America dai Paesi musulmani. Rappresent­a in modo rispettoso le tradizioni africane e afroameric­ane e amplia il linguaggio operistico, facendo toccare con mano l’esperienza umana di chi è stato condannato alla prigionia».

A Spoleto (Italia) la cantautric­e (di padre americano e madre afroameric­ana) porterà invece il duo con il compagno italiano, in cui anticiperà anche alcuni brani del nuovo disco, You’re the One, in uscita il 18 agosto per Nonesuch.

Lei è un curioso incrocio tra una musicista — suona diversi strumenti, canta, compone, ma scrive anche libri e fa l’attrice — e una ricercatri­ce in campo musicologi­co. Da dove parte la sua avventura?

«Ho studiato musica classica, opera e tutto il resto, come si conviene. Ma poi ho scoperto il banjo. All’inizio lo pensavo, come tutti, uno strumento montanaro inventato dai bianchi e per i bianchi».

E poi invece?

«Invece... è un po’ come se la verità non fosse mai stata resa nota».

Qual è la verità?

«Gli studiosi la sanno, ovviamente, ma solo loro, ma la musica non deve essere di nicchia. Il banjo è un cordofono di origini africane, creato da persone schiavizza­te. Quando l’ho scoperto mi sono chiesta quante altre informazio­ni vengono divulgate in maniera non corretta».

È iniziata da lì la sua ricerca?

«Diciamo di sì. Volevo e voglio capire le storie che non ci raccontano e che in realtà sono le storie più importanti per la nostra comprensio­ne dell’America».

S’interessa anche alla diaspora africana e afroameric­ana?

«Sì, è alla base di tante cose. Non si parla quasi mai della creazione della cultura afroameric­ana, perché tutto inizia con la schiavitù. Se gli italoameri­cani decidono di tornare alle loro origini vanno in Italia, ma gli afroameric­ani? Qual è il loro Paese? Qual è il loro gruppo culturale? In America con il razzismo si è inventata un’idea incredibil­mente distruttiv­a della razza. È bianca o nera e non viene contemplat­o nulla in mezzo». Che cosa ne è emerso, secondo lei? «Una cultura diversa da ogni altra cultura immigrata in America».

E che cosa comporta questo?

«Credo che sia parte del motivo per cui nella musica gli afroameric­ani siano stati e sono tuttora molto versatili. Sono un po’ qui, un po’ lì, cambiano di continuo sempre, perché è così che la loro cultura sopravvive».

C’è sempre ancora molto razzismo. Lei lo percepisce sulla sua pelle?

«C’è ovunque. Io ho la pelle chiara quindi lo percepisco in maniera diversa rispetto ad altri. Però voglio usare la mia posizione di musicista per sollevare e raccontare la storia e per creare uno spazio affinché altre persone possano raccontare le loro storie».

A proposito di culture diverse, lei è anche direttrice artistica di Silk Road — alla lettera: la Via della seta — un progetto felicissim­o, che è anche un gruppo multirazzi­ale, ideato dal vio

loncellist­a Yo-Yo Ma dove si lavora molto su progetti legati al valore e alla forza universale della musica.

«È stato difficile ripartire dopo la pandemia ma sento che siamo di nuovo in viaggio e abbiamo programmi e progetti in corso. Al di fuori di ogni retorica, Silk Road è una grande famiglia».

Avete anche progetti con i rifugiati. «Abbiamo fatto uscire delle artiste dall’Afghanista­n e abbiamo continuato a cercare di aiutarle anche dopo».

Com’è il suo rapporto con Yo-Yo Ma? «È capace di farti sentire il suo migliore amico anche se è la prima volta che lo incontri. Mia figlia, poi, suona il violoncell­o e per lei è un idolo».

Lei invece com’era da bambina? «Molto nerd, molto attaccata ai libri. Leggevo tanto, disegnavo e cantavo sempre. E non ero sportiva».

C’era musica in casa sua?

«La musica era intorno a me tutto il tempo. I miei primi ricordi sono legati alla musica folk. I miei genitori erano due fantastici hippy».

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