Corriere della Sera - La Lettura
Il romanzo della vita
Ci sono i biografi della working class — figli e interpreti di quello che una volta era il proletariato, che non è sparito, ma si è trasformato in precariato; e c’è il biografo dei narratori — non un saggista, ma un narratore lui stesso, capace di raccont
Sia detto come premessa, di gusto più che di metodo. Fatico sempre a prendere sul serio i romanzi che mettono in scena i grandi scrittori del passato: prosatori, poeti, drammaturghi che siano. Mi sorprende che frattanto questo tipo di marchingegno narrativo sia diventato un genere letterario diffuso e universalmente apprezzato. Dubito che per rendere romanzesco uno scrittore basti mettergli in bocca qualche bella frase a effetto. Credere che il gentiluomo dalle folte basette che intinge la penna nel calamaio in una lugubre dimora milanese sia davvero Alessandro Manzoni esige uno sforzo di fantasia di cui sono francamente incapace. E che dire del gusto pacchiano di chi si arroga il diritto di raccontare nei dettagli più riprovevoli le ultime ore di vita di Sylvia Plath e di John Allyn Berryman? Non tutti i luoghi possono essere esplorati, non tutte le storie meritano di essere narrate. C’è qualcosa di oltraggiosamente disonesto in chi si fa bello sia della gloria che delle disgrazie altrui.
Poi ci sono i libri di Colm Tóibín! Più di una semplice eccezione. Me ne accorsi anni fa leggendo The Master, il romanzo dedicato alla vita di Henry James. Un libro talmente ben congegnato, e dal piglio così emotivamente coinvolgente, da mettere in crisi i miei pregiudizi. Forse, mi dissi allora, è un caso. Forse James gli è solo parecchio congeniale. A sorprendermi era la capacità di Tóibín di mettersi al servizio di James. Come scrisse a suo tempo il compianto Piero Gelli: «Tóibín segue con magistrale perizia i fantasmi del suo protetto: l’affiorare di una notte allusiva trascorsa, da ragazzo, con l’amico William Dean Howells, il suicidio «colposo» dell’amica Constance Fenimore Cooper, la morte dell’adorata sorella Alice. Lo circonda di solitudine come di mondanità: gli amici che gli parlano del processo Wilde, le petulanti dame che vanno a fargli visita, i domestici che si ubriacano, mentre la vita continua a scorrere via, o meglio si trasforma in letteratura».
Insomma, non basta riconoscere a Tóibín il primato dell’erudizione. È evidente che The Master è il frutto di una full immersion nell’universo jamesiano, e nelle sue carte. Non c’è episodio narrato che non trovi riscontro nell’aneddotica del tempo o negli epistolari dei protagonisti.
Ma non è questo il punto. Tóibín è un artista, non un archeologo, tanto meno un filologo. Se da un lato sta ben attento a non spingere l’invenzione oltre i limiti consentiti, dall’altro è maestro nel catturare lo spirito del suo eroe. Un mimetismo cauto, ironico, mai ingerente. Un’arte affabulatoria così naturale da permettere allo spettro di James di rivivere in tutte le sue ombre, le cautele, i languori, le melanconie, ma soprattutto nell’immedicabile senso di inadeguatezza morale e erotica che afflisse la sua esistenza terrena: raminga, laboriosa e appartata. Per darvi un esempio trascrivo uno dei tanti passi da me a suo tempo sottolineati: «Henry adorava la morbidezza dei colori della spiaggia nei pressi di Rye, il mutare della luce, le nuvole vellutate, che si muovevano nel cielo come spinte da uno scopo. Era qui che aveva trascorso le ultime estati. Quell’estate, in particolare, mentre camminava a passo veloce cercando per una
Colm Tóibín (Enniscorthy, Leinster, 30 maggio 1955) è uno scrittore, giornalista e critico letterario irlandese con una formazione in storia e letteratura inglese. Tra i suoi libri più noti, tradotti in italiano, si ricordano: Sud (Fazi, 1999); Il faro di Blackwater (Fazi, 2002) e Il testamento di Maria (Bompiani, 2014), finalisti al Booker Prize. La sua opera The Master (Fazi, 2004) ha vinto l’Impac Award; mentre Brooklyn (Bompiani, 2009) ha ottenuto il Costa Novel Award. Henry James (New York, 15 aprile 1843Londra, 28 febbraio 1916), scrittore e critico letterario statunitense naturalizzato britannico, ha indagato nei suoi testi la società americana e quelle europee. Il romanzo che lo ha reso celebre è Ritratto di signora (1881), arrivato in Italia nel 1943 per Einaudi. Si è dedicato alla stesura di racconti, di volumi di viaggio, di critica letteraria e di opere teatrali. La sua vita è raccontata nel romanzo The Master di Colm Tóibín. Thomas Mann (Lubecca, Germania, 6 giugno 1875Zurigo, Svizzera, 12 agosto 1955), scrittore e saggista tedesco, ha vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 1929. La sua opera esplora il malessere dell’uomo, la malattia, la morte. Tra i suoi capolavori si ricordano: I Buddenbrook (1901; A. Barion Editore, 1930); La morte a Venezia (1912; Treves, 1930), La montagna incantata (1924; Modernissima, 1932; pochi anni fa riproposto nei Meridiani Mondadori con il titolo La montagna magica). La sua biografia romanzata è oggetto del libro (Einaudi) di Colm Tóibín, pubblicato quest’anno in Italia (pagine VI-506, 24), nella traduzione di Giovanna Granato volta tanto di godersi la giornata senza pianificare nulla, non riusciva a smettere di domandarsi cosa desiderasse per il presente e di ripetersi che più di tutto voleva questo: il lavoro tranquillo, giornate tranquille, una bella casetta e quella delicata luce estiva». Come vedete, non si tratta del classico pastiche d’artista, e neppure della gustosa parodia di un virtuoso. L’ambizione di Tóibín è insieme più alta e più cauta. E per capire di che tipo di ambizione si tratta chiamo volentieri in causa una famosa provocazione di Baudelaire: in uno dei Salon scrive che non c’è recensione critica migliore di un sonetto e di un’elegia. Ecco come Baudelaire, il maggior critico del XIX secolo, indica all’esegeta la giusta via, la più complicata da battere, ma anche la più diretta e soddisfacente. Solo l’arte è in grado di capire l’arte, e di interpretarla mentre finge di ricrearla.
E ora veniamo a Il Mago, l’ultimo lavoro di Tóibín. Un’opera ambiziosa che ripercorre per sommi capi, in modo diacronico, la vita di Thomas Mann e della sua incredibile cerchia. Qualora ce ne fosse stato bisogno, Il Mago dimostra che The Master era tutto ma non un caso. Per certi versi, si tratta di un libro persino migliore, decisamente più riuscito. Forse perché la vita di Mann presenta elementi romanzeschi più avvincenti. O forse perché, nel frattempo, l’arte medianica di Tóibín si è ulteriormente affinata rivelando una spigliatezza disarmante.
Tempo fa ne parlavo con Luca Crescenzi, uno dei massimi specialisti mondiali di Mann. Date le circostanze, il suo parere mi sembrava particolarmente prezioso. Al netto dell’impressionante competenza messa in campo da Tóibín, mi ha assicurato Crescenzi, nel Mago non c’è una sola invenzione che risulti implausibile o pleonastica.
A me pare che ancora una volta il miracolo si realizzi sul piano stilistico. La prosa decadente e intimista di The Master, consustanziale a James e al suo mondo, cede qui il passo a un’ironia di marca manniana. La figura di Thomas, ben lungi dall’uscirne ridimensionata, acquista una peculiare umanità. Ancora una volta Tóibín, nell’illustrare i dubbi, le incrinature, le grettezze del genio al lavoro, si smarca da ogni enfasi romantica.
A dominare la scena sono i personaggi femminili delineati con mirabile vivacità. Su tutti Katia, la moglie: l’ereditiera ebrea eccentrica, colta, oltremodo spiritosa che per tutta la vita veglierà sulla pace del marito come una vestale. Dalla prospettiva del giovane Thomas, e quindi del figlio di un gretto commerciante di Lubecca, Katia appare una creatura bizzarra e ineffabile: «Era incuriosito dal modo che aveva Katia di parlare, da come si poneva nei confronti dei libri che leggeva, della musica che ascoltava e delle gallerie d’arte che visitava. Intrattenendo una conversazione, aveva la capacità di trovare il fulcro dell’argomento e di seguire una logica che stabiliva fin dall’inizio. Non erano le opinioni a interessarle. Semmai le premeva la forma di un discorso e su quali basi venivano tratte le conclusioni».
A dispetto di quella di James, la vicenda umana di Mann è trattata senza lirismi, riducendo all’osso digressioni e introspezione. Gli eventi si accumulano uno sull’altro, vorticosamente. A fronte dei cataclismi che radono al suolo ogni cosa — famiglia, patria, mondo intero —, Mann rimane fermo sui suoi passi. Ovunque la storia lo trascini — da Monaco alle Alpi svizzere, da Venezia a Davos, da Princeton a Santa Monica — lui, protetto dalle amorevoli cure di Katia, ripristina il suo tenore di vita contemplativo e laborioso. L’ostinazione con cui difende il fortino creativo è insieme eroica e patetica. Accetta onorificenze, sbriga impegni pubblici, partecipa a eventi mondani con lo stesso contegno perplesso e serafico. Intorno a lui tutti si agitano: il fratello, i figli, i colleghi. Non ce n’è uno che non abbia un’opinione forte su qualsiasi cosa e che non veda l’ora di esternarla. Lui no. È cauto, incerto, a tratti persino vile.
Non ne so abbastanza per essere sicuro che il medaglione di Thomas Mann sbozzato da Tóibín sia fedele all’originale. Ma ha davvero importanza? Comunque la si pensi, tale ritratto è perfettamente compatibile alle personalità irrisolte e tentennanti di Hanno Buddenbrook, Gustav von Aschenbach e Hans Castorp. Serve altro?
Una domanda resta in sospeso. Perché James? Perché Mann? Cosa li accomuna? In un certo senso, niente. Se non forse per certi privilegi di casta, per l’inclinazione al bello, alla vita comoda, alle delizie del viaggio e della mondanità, si stenta a immaginare personalità artistiche più antitetiche. Per questo sarebbe troppo semplice (e fuorviante) chiamare in causa l’omosessualità, in entrambi i casi dissimulata e mal vissuta.
Mi pare che ad animare le investigazioni di Tóibín intorno al mistero artistico di questi due giganti del modernismo europeo e americano, il sesso c’entri, ma in un modo meno scontato di quanto si possa pensare. Sia Henry che Thomas, sebbene in forme e modi diversi, condizionati da circostanze ambientali e storiche particolarmente scoraggianti, non possono dare sfogo alle proprie inclinazioni sessuali.
Ecco il punto. Il solo campo in cui l’eros può esprimersi è la scrittura, il solo spazio di concupiscenza concesso a entrambi è l’invenzione romanzesca. Questo è il clima che domina le pagine di The Master e del Mago, che li giustifica e li tiene insieme. L’arte come ripiego della libido. Un tema inesauribile, vecchio come Abramo. Ecco perché Tóibín insiste tanto sull’ottusa pertinacia di Thomas Mann nel rimanere fedele a se stesso: il partito preso, la scelta di campo che sin dalla prima giovinezza ha cristallizzato la sua vita e il suo immaginario in un destino senza scampo.
Descrivendo gli ultimi anni, nella sua villa californiana, alle prese con un romanzo così spudoratamente anacronistico come Doctor Faustus, Tóibín scrive: «Thomas sorrise all’idea che i dolci cieli californiani, le bellissime mattinate miti in cui poteva fare colazione in giardino, l’abbondanza, l’impeccabile bellezza non avessero contribuito a cambiare la sua mente. Invece i cieli grigi, le primavere piovose, i lunghi inverni, la luce obliqua sul fiume Isar o il clima recalcitrante di Lubecca avevano forgiato una sensibilità così solida che quella parentesi protratta in paradiso non poteva trasformarla e nemmeno intaccarla. Perciò dal suo romanzo sarebbe sembrato che non si fosse mai nemmeno allontanato dalla Germania».