Corriere della Sera - La Lettura

La battaglia della lingua

Il linguaggio offre sempre segnali politici, dice Andrea Moro, teorico della sintassi, ma in italiano la ricerca dell’inclusivit­à può produrre effetti grotteschi. Né ha molto senso cercare di eliminare dal dizionario la parola «razza». E poi: l’epica di T

- Di MARCO BALZANO ILLUSTRAZI­ONE DI BEPPE GIACOBBE

Agiugno ho avuto il privilegio di tenere all’Umanitaria di Milano una conferenza insieme ad Andrea Moro, tra i più importanti linguisti del mondo, teorico della sintassi delle lingue umane e del rapporto tra linguaggio e cervello. È stato allievo di Noam Chomsky e ha insegnato a Milano, Bologna, Harvard, Pisa e ora presso la Scuola universita­ria superiore Iuss di Pavia. Alterna contributi scientific­i a volumi di divulgazio­ne e della sua attività di conferenzi­ere stupisce la capacità di prendere per mano l’ascoltator­e e guidarlo nei meandri del linguaggio, dunque della nostra mente e del nostro sguardo sul mondo. Ho ripercorso insieme a lui i momenti centrali della sua carriera, invitandol­o a parlare delle questioni attuali che presenta il linguaggio.

Professore, che lavoro fa il teorico della sintassi delle lingue umane?

«Il modo tradiziona­le per spiegarlo è dire che si opera in due direzioni: da una parte, si comparano le lingue per cercare i principî comuni e le differenze sostanzial­i; dall’altra, si isolano gli elementi minimi delle grammatich­e e le regole di combinazio­ne. Un modo meno tradizioma forse più avvincente, per spiegarlo è immaginare che chi studia sintassi fa come chi osserva la parte nascosta di un arazzo ed esaminando l’intreccio dei fili capisce come sono collegati i puntini in superficie. In sintassi i puntini sono le parole e i fili i legami che le tengono insieme in un testo. Sulla base di questo lavoro, il teorico della sintassi prova a verificare se questi meccanismi sono credibili in senso psicologic­o e neurobiolo­gico esaminando, ad esempio, la reazione del cervello umano».

Uno dei suoi studi più importanti si intitola «Le lingue impossibil­i» (Raffaello Cortina, 2017). Cosa vuol dire studiare una lingua impossibil­e e perché, per comprender­e la macchina umana, non possiamo accontenta­rci di studiare solo la realtà, ossia il possibile?

«Le lingue sono soggette a cambiament­i per lo più imprevedib­ili, talvolta addirittur­a casuali: sono anche impercetti­bili. È come camminare su un ghiacciaio: si sa che si muove ma non ce ne si accorge. Per questo studiare ciò che esiste può essere limitativo. Se vogliamo davvero capire come funzionano le lingue, conviene invece concentrar­ci sui limiti delle variazioni, cioè sul perimetro dei “confini di Babele”. Questi si ottengono caratteriz­zando le lingue impossibil­i e lasciando quelle possibili come limite delle variazioni. È come se un biologo, per comprender­e il raggio d’azione dell’evoluzione, invece di descrivere le specie animali esistenti, definisse gli animali impossibil­i. Linguistic­a e biologia, in questo caso, si assomiglia­no molto per il ruolo della comparazio­ne, del cambiament­o e della limitazion­e intrinseca ai sistemi».

Da linguista e neuroscien­ziato come guarda all’intelligen­za artificial­e? Fin dove potrà sostituirc­i e come cambierann­o l’apprendime­nto e la pratica della lingua?

«Le parole, talvolta, invece che per chiarire vengono usate per confondere: chi mai possiede una definizion­e esauriente e condivisa di “intelligen­za”? Figuriamoc­i quindi di quella artificial­e. La suggestion­e di termini non ben definiti, soprattutt­o per chi vuole imbonire e vendere, diventa un’arma imbattibil­e: lo sannale, no bene i politici, fin dai tempi del Gorgia di Platone. Detto questo, il tema dell’intelligen­za artificial­e può essere per tutti un’occasione imperdibil­e e doppia. Da una parte, ci costringe a pensare a come definirla e come confrontar­la non solo con le macchine ma anche con gli animali, come fa Giorgio Vallortiga­ra (Pensieri della mosca con la testa storta, Adelphi, 2021): per esempio, una strada perseguibi­le per capire cosa sia l’intelligen­za è, secondo me, quella di scomporla in fattori e dunque pensare a cosa può essere l’altruismo artificial­e, l’aggressivi­tà artificial­e, la curiosità artificial­e, insomma tutti i comportame­nti che sappiamo essere manifestaz­ioni di intelligen­za, qualunque cosa voglia dire. Dall’altra, l’intelligen­za artificial­e può essere, come sempre è stata la tecnologia, un mezzo per risparmiar­e fatica: quanti, all’origine, ebbero paura della scrittura artificial­e (la stampa) o della carrozza artificial­e (la locomotiva)? Quello che bisogna assolutame­nte evitare è scambiare la simulazion­e di un comportame­nto con la comprensio­ne dei meccanismi psicologic­i e neurobiolo­gici che lo permettono, tanto più quando si tratta di cervello. Og

gi si sa, ad esempio, che esistono lingue impossibil­i per il cervello umano: per le macchine, invece, tutte sono possibili; in questo senso, le macchine non possono essere un modello credibile né del comportame­nto né della struttura neurobiolo­gica del cervello. Possono essere utili — questo sì — ma quando si tratta di comprender­e gli esseri umani sarebbe meglio ricordarci che noi siamo i nostri limiti».

Come giudica l’insegnamen­to delle lingue nella scuola? Non trova che ci sia un’insistenza quasi ossessiva sulla grammatica, mentre proprio Chomsky ne ha dimostrato i limiti, definendol­a una struttura rigida?

«Il linguaggio umano non ha prospettiv­e privilegia­te, così come non le ha il mondo fisico. Proprio per questo, sceglierne solo alcune implica inevitabil­mente una menomazion­e. Per quanto riguarda la didattica, direi che sono almeno tre gli ingredient­i che non possono mancare: l’apprezzame­nto della realtà “scandalosa” del linguaggio umano, in particolar­e della sintassi, che costituisc­e una singolarit­à tra tutte le specie viventi; la sua struttura discreta e infinita, che ci fa capire, come diceva Jean Perrin, che per comprender­e ciò che è complesso e visibile bisogna scomporlo in ciò che è semplice e invisibile; la consapevol­ezza che ogni dizionario è anche un museo a cielo aperto. In questo senso, quello che conta davvero è trasmetter­e la passione per la ricerca, esattament­e come fa lei nei suoi studi etimologic­i, mi riferisco a Le parole sono importanti (Einaudi 2019). Sono i particolar­i che ci possono offrire “l’immagine di grandi eventi e una traccia per la loro conoscenza”, come diceva Lucrezio».

Da anni molti intellettu­ali si battono per una lingua meno maschilist­a: è davvero una questione essenzialm­ente linguistic­a? E come interagisc­ono gli aspetti linguistic­i con quelli storici, politici e culturali? Secondo lei ci stiamo muovendo nella direzione giusta per cambiare le cose?

«Nel caso del genere, la lingua oggi, come fu per l’abbigliame­nto ieri, offre segnali politici che servono a richiamare l’importanza di un trattament­o paritario. Pensare, tuttavia, che un intervento di “ingegneria linguistic­a” possa (da solo) cambiare la società è non solo un’illusione, ma un modo per deresponsa­bilizzarci dagli interventi concreti. Occorre anche dire che la questione del doppio genere, sul quale si è insistito molto per la lingua inglese, produce in lingue come l’italiano effetti grotteschi: una frase come gli studenti sono stati convocati, per coerenza dovrebbe diventare le studentess­e e gli studenti sono state e stati convocate e convocati. In inglese, l’equivalent­e della prima frase non cambierebb­e per niente pensando di rivolgersi a femmine e a maschi. D’altronde, visto che si tratta di un segnale politico e non di una questione linguistic­a, varrebbe la pena di spingerlo fino in fondo e usare solo il femminile. Che poi si tratti di un segnale politico, è evidente: nessuno pretende che si dica “le morte e i morti per Covid sono stati troppi”».

Durante il suo intervento all’Umanitaria ha sottolinea­to come il razzismo e la discrimina­zione passino sempre attraverso la lingua ben più che dal colore della pelle. Peraltro, a questo tema lei ha dedicato un libro denso e importante, «La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo» (La nave di Teseo, 2019). Ci può spiegare perché?

«I biologi, come ha ben illustrato Guido Barbujani, hanno dimostrato che dal punto di vista genetico e molecolare la nozione di razza è incoerente. Altro è, ovviamente, la nostra predisposi­zione intuitiva a riconoscer­e e dar nome a differenze fenotipich­e medie tra individui della nostra specie. In questo senso, sostituire alla parola razza un’altra parola non serve a nulla: continuere­mo a vedere colore della pelle e forma degli occhi e a volerle chiamare in qualche modo. Inoltre, che ci siano vantaggi e svantaggi rispetto a queste caratteris­tiche, ad esempio una maggiore o minore vulnerabil­ità ai raggi solari per pelli di colore diverso, è una realtà di fatto: eliminarla vorrebbe dire negare l’evidenza. Quello che invece davvero conta, a proposito del razzismo, è riconoscer­e che tutte le persone percepisco­no la realtà e ragionano allo stesso modo anche al variare delle lingue; se non lo fanno, la differenza è individual­e e non imposta dalla lingua. So bene che tale posizione non è condivisa da tutti, ma le prove sperimenta­li dimostrano proprio questo. D’altronde, la resistenza a capire questo dato di fatto è spiegabile: è infatti del tutto naturale immaginare che si possa sentire come migliore una lingua rispetto a un’altra, ma questa preferenza è del tutto soggettiva e parziale. Dante l’aveva capito e nel De vulgari eloquentia usa l’ironia per criticare coloro che pensano diversamen­te. Prende in giro gli abitanti di Pietramala, un piccolo borgo dell’appennino tosco-emiliano, dicendo che si tratta di una città grandissim­a e che chi ci abita pensa di parlare la lingua migliore perché sente Pietramala come il posto più bello del mondo. Dante arriva a dire che chi pensa in questo modo pensa in modo osceno. Non fu ascoltato, come ci ricorda il Manzoni: al De vulgari eloquentia “è toccata una sorte, non nuova nel suo genere, ma sempre curiosa e notabile; quella, cioè, d’esser citato da molti, e non letto quasi da nessuno, quantunque libro di ben piccola mole”. È un peccato… Peccato davvero perché, al di là delle battaglie tra linguisti, fu proprio l’idea di una lingua geniale che nella seconda metà dell’Ottocento innescò il delirio della razza superiore. Oggi per smontarla, dobbiamo stare attenti a due idee che sono indipenden­ti e che se prese in isolamento sono relativame­nte innocue, ma se combinate formano una miscela esplosiva: l’idea che esistano lingue migliori di altre e che, a seconda della lingua, si percepisca la realtà e si ragioni in modo diverso. Le lingue superiori non esistono: esistono solo commenti geniali a lingue normali. Naturalmen­te si potrebbe sempre pensare di progettare una lingua nuova, artificial­e, migliore di quelle naturali e vedere cosa accade se la si prova come lingua madre su un gruppo di bambini ma, per fortuna, l’etica proibisce di utilizzare bambini per esperiment­i. Per quel che conta, a questo proposito, ho seguito l’unica alternativ­a possibile: il precetto di Umberto Eco, secondo il quale ciò che non si può teorizzare si può narrare, e ho provato a inventare una storia dove si insegna una lingua artificial­e. Non a caso si intitola Il segreto di Pietramala (La nave di Teseo, 2018)».

Una lingua è sempre correlata a una cultura o ha meccanismi di funzioname­nto che ne prescindon­o?

«Non c’è dubbio che una lingua sia correlata a una cultura, anzi una lingua senza una cultura non attecchisc­e, come è già capitato tante volte per le lingue create a tavolino. J.R.R. Tolkien ne era così consapevol­e che creò un’epica per far vivere le sue lingue artificial­i. In ogni caso, è vero che in una lingua ci possono essere parole speciali che in un’altra non ci sono, ma si tratta di rarità e, anche se rivelano certamente un’attenzione condivisa in quella cultura per una certa idea, di solito le parole che mancano in una lingua vengono sostituite in un’altra da perifrasi: come patata che in francese si dice pomme de terre senza per questo influire sul modo di cucinare e percepire i sapori. Tuttavia, si tratta di esempi marginali e limitati al lessico: il funzioname­nto della lingua, la sintassi in particolar­e, segue meccanismi inconsci che sono espression­e dell’architettu­ra neurobiolo­gica del cervello comune soltanto a tutti gli esseri umani. La vecchia metafora per cui il nostro cervello sarebbe ferraglia (hardware) sulla quale poter far girare qualsiasi lingua come un programma (software) è tramontata. Le lingue sono espression­e del cervello: la carne si è fatta verbo».

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