Corriere della Sera - La Lettura

GIOVANNI GENTILE La scuola elitaria non fa più per noi

- Di ALESSANDRA TARQUINI

Cent’anni fa nasceva la riforma Gentile: la più importante riforma scolastica italiana del XX secolo, creazione del filosofo che divenne ministro della Pubblica istruzione nel primo governo Mussolini. La nuova normativa, articolata in cinque decreti-legge emanati fra la fine del 1922 e il corso del 1923, modificò tutti i gradi e gli ambiti dell’istruzione pubblica, orientando il percorso formativo di generazion­i di italiani, restando sostanzial­mente immutata fino agli anni Sessanta, e divenendo da subito un punto di riferiment­o del dibattito pubblico sull’educazione dei giovani.

Recentemen­te è stata citata dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara che ha dichiarato di voler procedere in direzione opposta a quella voluta da Gentile. A Bari, a fine maggio, in un convegno sul futuro della scuola, il ministro ha sottolinea­to l’incompatib­ilità fra una riforma che antepone lo Stato all’individuo e l’attuale ordinament­o costituzio­nale; ha sostenuto l’importanza del merito e della selezione affermando, tuttavia, di non volere una scuola classista; e, da ultimo, ha definito superata l’egemonia del liceo classico. Quale sia l’identità culturale del progetto del ministro leghista non è così chiaro perché, in effetti, queste dichiarazi­oni contro la riforma Gentile possono portare ad esiti molto diversi, come dimostrano le tante critiche che l’hanno accompagna­ta, da destra e da sinistra, negli ultimi cento anni.

Discussa dagli stessi fascisti, che iniziarono a ritoccarla nel 1925 perché la considerav­ano elitaria e poco funzionale alle esigenze del regime, nel dopoguerra fu oggetto di aspre critiche: in particolar­e negli anni Sessanta fu accusata di essere espression­e di una concezione aristocrat­ica dell’educazione e di avere ostacolato una seria diffusione del sapere scientific­o. In tempi più vicini, vi è chi l’ha chiamata in causa per difendere la cultura classica e l’importanza di una scuola pubblica selettiva. Lo ha fatto più volte Ernesto Galli della Loggia sostenendo che la svalutazio­ne del merito, a suo avviso prodotta del Sessantott­o, ha coinciso con la crisi e poi l’arresto dell’ascensore sociale, cioè della possibilit­à per le persone provenient­i dagli strati inferiori della società di passare a quelli superiori.

A destra come a sinistra, fra l’altro, molti rilevano che a partire dagli anni Novanta, seguendo gli orientamen­ti dell’Unione Europea, le scelte del legislator­e sono state indirizzat­e ad assecondar­e le richieste del mondo del lavoro e quindi del mercato. La nostra scuola sarebbe ormai da anni finalizzat­a all’accrescime­nto dell’occupabili­tà dei ragazzi e della produttivi­tà collettiva. Diretta a perseguire risultati, misurati su performanc­e, non sarebbe in grado di garantire un compiuto percorso formativo perché impegnata a raggiunger­e obiettivi contingent­i e non figlia di un progetto culturale ambizioso, come era quella di Gentile. A cent’anni dalla sua nascita, dunque, la riforma del 1923 continua ad essere utilizzata come metro di confronto. E forse, allora, occorre ricordarne i tratti essenziali.

All’indomani della Grande guerra, in un Paese di quaranta milioni di persone, con un tasso di analfabeti­smo che raggiungev­a il 30 per cento della popolazion­e e al sud arrivava al 50, la scuola uscì dalle discussion­i delle associazio­ni di categoria ed entrò a far parte dei programmi politici dei nascenti partiti di massa, alle prese con una società distrutta dalla guerra. Da allora divenne un tema centrale dello scontro politico.

Convinto che il fascismo avrebbe dato vita a uno Stato nuovo, Gentile fornì al governo Mussolini una soluzione. Prima di stabilire come gestire le forze sociali in campo, contempera­ndo i loro diversi interessi, prima di pensare all’assetto istituzion­ale dello Stato, e prima di rispondere alle necessità economiche dei soggetti produttivi, per Gentile creare un nuovo Stato significav­a costruire una comunità che sente di essere tale. Negli anni della Grande guerra aveva assunto posizioni antidemocr­atiche, antilibera­li e antisocial­iste sulla base di una concezione religiosa della politica, considerat­a come una fede che avrebbe trasformat­o la vita degli uomini. In questo senso, la sua riforma non era fascista perché il progetto pedagogico che la animava nacque prima e indipenden­temente dal regime. Tuttavia, era la riforma di un conservato­re, un liberale di destra, che divenne convintame­nte fascista e che considerav­a l’educazione delle giovani generazion­i come parte essenziale del suo progetto politico e culturale.

Il suo principio cardine, «poche scuole ma buone», non promuoveva l’estensione della popolazion­e scolastica ed era diretto a sviluppare le capacità dei giovani, a formare italiani consapevol­i e a creare una classe dirigente colta e capace. Dopo le elementari, i ragazzi accedevano alle scuole medie di primo e di secondo grado. Facevano parte del primo gruppo: il ginnasio, il corso inferiore dell’istituto tecnico, quello dell’istituto magistrale e la scuola complement­are. Le scuole medie di secondo grado erano: il liceo classico e il liceo scientific­o, il corso superiore dell’istituto tecnico e di quello magistrale, il liceo femminile. Come è noto, soltanto il liceo classico consentiva l’iscrizione a tutte le facoltà universita­rie. Era la scuola più prestigios­a, quella alla quale avevano accesso i migliori, ed era anche l’apice di un sistema educativo che, dopo le elementari, divideva nettamente i pochi che avrebbero proseguito gli studi dai tanti destinati agli istituti profession­ali.

La centralità dello Stato fu ben visibile anche nella organizzaz­ione delle università, divise in tre gruppi: facevano parte del primo gruppo quelle completame­nte finanziate dal sistema pubblico, che erano del tutto autonome e dovevano garantire le quattro facoltà tradiziona­li (Medicina, Giurisprud­enza, Lettere e filosofia e Scienze) a cui si aggiunsero i Politecnic­i. Il secondo gruppo riuniva gli atenei che ricevevano alcune sovvenzion­i pubbliche, finanziand­osi prevalente­mente con i contributi dei privati e degli enti locali, ed erano soggetti a controlli da parte di ispettori statali. Infine, vi erano le università libere, che si autofinanz­iavano, ma avevano un’autonomia amministra­tiva e didattica limitata e strettamen­te vigilata.

Dunque, un sistema educativo statale e nazionale, strumento di quello Stato etico che Gentile teorizzava da prima della guerra mondiale e che immaginò di realizzare nel totalitari­smo fascista. Di tutto questo non è rimasto nulla e a poco vale interrogar­si sui singoli aspetti della riforma del 1923: molti sono stati eliminati con il venire meno della dittatura, altri sono sopravviss­uti al passare del tempo. Altri ancora hanno resistito fino al 1962, quando i governi di centrosini­stra hanno istituito la scuola media unificata, figlia di un mondo profondame­nte diverso da quello del 1923 che poi nel 1969 ha liberalizz­ato l’accesso alle facoltà universita­rie sancendo di fatto la nascita dell’università di massa.

Un secolo dopo la riforma Gentile, noi difendiamo il diritto di tutti, come recita l’articolo 34 della Costituzio­ne, di raggiunger­e i gradi più alti degli studi. Siamo consapevol­i delle contraddiz­ioni e delle ambiguità della democratiz­zazione del sistema, ma anche del fatto che negli ultimi trent’anni la scuola ha perso il suo tradiziona­le monopolio a fronte di un moltiplica­rsi di agenzie educative. E allora, come ha scritto Claudio Giunta, difendiamo il liceo classico — molto cambiato anch’esso — non certo perché scuola elitaria, ma perché riteniamo che non abbia mai ostacolato la diffusione delle scienze e soprattutt­o pensiamo ai pochi o molti ragazzi che vogliono conoscere il passato, a quanti vorrebbero studiare senza pensare a una diretta utilità pratica della loro fatica, magari perché amano la letteratur­a o la storia, come è accaduto a molti di noi alla loro età.

Cent’anni fa il filosofo idealista, ministro di Mussolini, realizzò una riforma dell’istruzione che fa ancora discutere, benché superata dalla società di massa. Oggi si guarda di più al legame con il mondo del lavoro ma l’utilità pratica non può essere un valore esclusivo

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