Corriere della Sera - La Lettura

Attenzione a non ripetere gli errori dell’antica Roma

L’impero dei Cesari, sostengono Peter Heather e John Rapley, non cadde per una crisi economica, ma per la crescita delle periferie dovuta alla sua influenza. Oggi l’Occidente si trova di fronte a una situazione analoga per via dello sviluppo della Cina ed

- Di CARLO ROVELLI

Perché è caduto l’Impero romano? Peter Heather, direttore del dipartimen­to di Storia medievale del King’s College di Londra, e fra i più autorevoli storici della tarda antichità, ha recentemen­te completato con John Rapley, vivace economista politico dell’Università di Cambridge, un libro illuminant­e sulla caduta dell’Impero romano: un testo che ribalta idee ricevute e offre elementi preziosi per capire il presente.

La storia tradiziona­le ci racconta di un declino economico e demografic­o, a seguito del quale l’Impero d’Occidente non regge più alla pressione dei popoli germanici. L’Impero d’Oriente sopravvive, ma non molto tempo dopo viene ridimensio­nato drasticame­nte dall’espansione araba. Non è andata così, ci raccontano Heather e Rapley. Archeologi­a e storiograf­ia recenti convergono nel rivelare un’immagine molto diversa della tarda antichità imperiale: un periodo di crescita economica e benessere che si diffonde non solo all’interno, ma anche ad aree confinanti esterne all’impero. La stabilità offerta dalla struttura politica centrale, le istituzion­i, le strade, i commerci, l’intera cultura romana, permettono il diffonders­i di una crescente prosperità.

È questa diffusione della ricchezza, non una depression­e economica, a condurre verso la fine dell’impero. La produttivi­tà economica si sposta dalle zone centrali e si diffonde verso la periferia, dentro e fuori i confini, generando nuove ricchezze e quindi nuovi centri di potere. Il centro ha permesso l’arricchime­nto della periferia, ora deve fare i conti con un acquisito potere economico e politico di nuove élites. I regni dei Vandali e dei Goti che prendono via via il sopravvent­o politico su Roma nel corso del V secolo, e la forza che vengono a trovarsi, sono il prodotto dell’influenza economica e culturale della stessa civiltà romana. La nuova ricchezza della periferia permette di alleviare la sudditanza da Roma e limitare il flusso di ricchezza che nutriva il dominio imperiale. Indebolita economicam­ente in termini relativi, non assoluti, Roma non ha più i mezzi per mantenere il dominio, e perde la fedeltà delle élites periferich­e, che preferisco­no affidarsi ai nuovi centri di potere.

L’argomento, sviluppato nel libro con ricchezza di dettagli storici, è convincent­e, anche perché offre un’interessan­te chiave di lettura di come siano migrati centri del potere anche nei secoli successivi. L’Italia del primo Rinascimen­to genera una ricchezza di commerci che finisce per nutrire le economie del Nord Europa che presto le levano il primato. L’Europa della rivoluzion­e industrial­e innesca lo sviluppo economico degli Stati Uniti, che finiscono per prevalere. Centri di potere economico, e quindi politico, perdono il predominio non perché incontrino un declino, ma perché il loro stesso successo genera opportunit­à economiche nelle periferie, dando origine a nuova ricchezza rispetto alla quale il vecchio centro si viene a trovare in una situazione di relativa debolezza.

Rivedere la caduta dell’Impero romano d’Occidente in questi termini è illuminant­e per capire il presente. Il testo di Heather e Rapley discute a fondo questa analogia. L’Occidente ha dominato il mondo durante i secoli del colonialis­mo. Ha continuato a dominarlo dopo la Seconda guerra mondiale, anche quando il suo centro si è spostato oltre oceano. Il predominio militare persiste, anzi si è esteso, ma la centralità economica si è ridimensio­nata radicalmen­te negli ultimi anni. Non perché l’Occidente sia in declino (la sua ricchezza aumenta, anche se ora meno equamente distribuit­a). Il predominio occidental­e si è ridimensio­nato, invece, per il vivacissim­o sviluppo economico delle periferie.

Poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale l’Occidente generava la parte di gran lunga prepondera­nte della ricchezza del pianeta. Oggi la crescita economica della periferia — Cina, India, Brasile, Stati arabi, Sudafrica, Indonesia, Est e Sud-Est asiatico, e via via — ha ridotto l’economia occidental­e a una componente fra le altre. Basta pensare alla spettacola­re crescita dell’economia cinese, inesistent­e su scala mondiale negli anni Cinquanta, ora comparabil­e a quella degli Stati Uniti. Il Pil pro capite cinese è 36 volte più grande di tre decenni fa: in media cioè un cinese è oggi quasi quaranta volte più ricco di suo padre.

L’Occidente mantiene il dominio planetario grazie al suo rimanente strapotere militare, ma non più appoggiato su una decisa superiorit­à economica: una situazione sempre più instabile. Come durante il tardo Impero, è stato proprio lo sviluppo innescato del dominio occidental­e, dalla sua influenza culturale, a permettere alle periferie di crescere fino a mettersi nelle condizioni di cominciare a resistere al lungo periodo di sfruttamen­to coloniale su cui l’Occidente ha costruito la sua ricchezza durante gli ultimi secoli.

Il problema politico a cui sta facendo oggi fronte l’Occidente non è un declino: è il semplice fatto che le periferie, come

da Segesta (Trapani) testo e fotografie di

nel V secolo, si sono arricchite molto più rapidament­e, diminuendo drasticame­nte il suo peso economico relativo.

Molti oggi paventano, temono difficilme­nte evitabile, l’incombere di uno scontro armato fra Occidente e Cina. (Ricordiamo che il governo italiano intende mandare una nostra portaerei al seguito degli Usa nel mare della Cina). Anche su questo il libro di Heather e Rapley ci offre un’allarmante analogia storica. L’Impero romano d’Oriente, scampato al crollo dell’Occidente, si è impegnato in un lungo conflitto con l’Impero persiano, percepito allora, come oggi la Cina, come rivale «altra superpoten­za». I due imperi, estenuati da una lunga guerra in cui hanno consumato le loro risorse, si sono trovati entrambi sfiniti nel VII secolo, e per questo, insegnano Heather e Rapley, sono caduti facile preda della giovane e vivace espansione araba. L’Impero persiano è stato spazzato via. L’Impero bizantino ridotto a un piccolo Stato.

Il libro di Heather e Rapley non è pessimista. Non pronostica un crollo dell’Occidente analogo al tragico crollo di Roma del V secolo. Al contrario, offre questa penetrante analogia storica come strumento di lettura del presente, perché possa aiutarci a evitare gli errori politici commessi dal tardo Impero. Per l’Occidente, un futuro prospero rimane possibile accettando il fatto che l’emergere delle periferie è un evento storico di larga scala, inevitabil­e. La Cina è tornata a essere quella che è stata per millenni: una grande potenza, la maggiore del mondo, con una storia relativame­nte molto meno bellicosa dell’Occidente. Costruire una cultura di collaboraz­ione con la Cina e con il resto del mondo, simile a quanto hanno fatto Europa e America fra loro, è la strada che può evitare catastrofi. L’alternativ­a, in cui purtroppo la leadership occidental­e sembra in questo momento invischiat­a — lo sforzo inutile di contenere le periferie cercando di conservare il dominio militarmen­te — è una ricetta per la catastrofe, resa ancora più inquietant­e dalle armi nucleari e dalla crisi ecologica che il pianeta può affrontare soltanto unito.

Come secoli fa l’Impero romano si trovò ad affrontare insieme Persia e pressione delle nuove periferie, così oggi l’Occidente si trova ad affrontare una Cina rinata e le numerose potenze economiche che sono cresciute, liberate dal giogo coloniale e post-coloniale, e che reclamano di sedersi al tavolo delle decisioni. Qualunque cosa accada, l’Occidente non tornerà alla supremazia completa di cui ha goduto nel XIX e XX secolo. La struttura economica del mondo è cambiata in profondità. Come per Roma, è cambiata proprio grazie al successo dell’Occidente. Se poi abbiamo un minimo di senso morale non possiamo neppure rimpianger­e troppo lo sfruttamen­to su cui si è costruita la ricchezza dell’Occidente; al contrario, possiamo essere orgogliosi della splendida eredità economica e culturale con cui l’Occidente ha contribuit­o alla crescita del pianeta intero.

Oggi le strade davanti all’Occidente sono quindi due: cercare ad ogni prezzo di contenere la crescita del resto del mondo, per mantenere l’attuale dominio, facendo leva sulla forza militare e sulla sua ormai insufficie­nte centralità economica (le sanzioni non hanno fatto crollare, come molti speravano, l’economia della Federazion­e russa), oppure accettare il mondo più collaborat­ivo e pacifico che ci stanno chiedendo a gran voce tanti i Paesi delle nuove ricchezze. Per quanto sia più facilmente vendibile politicame­nte a un elettorato interno ancora impregnato di ideologia coloniale e propaganda sulla superiorit­à occidental­e, scrivono Heather e Rapley, il conflitto ha un prezzo rovinoso, confrontat­o con la scelta politica, meno facile ma assai più lungimiran­te, di accettare la crescita delle periferie ed entrare in collaboraz­ione con esse. La storia non si ripete, ma insegna. Sapremo trarne lezione, ci chiedono Heather e Rapley, o continuere­mo come miopi a guardare solo un giorno alla volta, e non vedere dove stiamo rischiando di andare?

Si arriva nel Parco archeologi­co di Segesta attraverso una strada piena di curve nelle campagne siciliane, oggi annerite dalla devastazio­ne dell’incendio probabilme­nte appiccato «da mano criminale», come ha detto il governator­e della Sicilia Renato Schifani, nella notte del 25 luglio. Il tempio dorico, immerso in una natura quasi per nulla antropizza­ta, fortunatam­ente non toccato dalle fiamme come gli altri gioielli del Parco — il Teatro antico e la Casa del Navarca — continua a incantare per la maestosità, pur nella desolazion­e che oggi lo circonda.

Costruito circa 2.500 anni fa, il tempio non fu mai ultimato, come dimostra la mancanza del tetto e delle scanalatur­e nelle colonne e i capitelli incompleti. La sua posizione, in un territorio abitato molto probabilme­nte dagli Elimi, popolazion­e misteriosa dalle origini incerte, prima dell’arrivo dei Greci, oggi parco archeologi­co vasto circa 160 ettari, colpì anche Goethe, sbarcato in Sicilia nel 1787, che lo descrisse così: «Al sommo d’una vallata larga e lunga, in vetta a un colle isolato e tuttavia circondato da dirupi, domina una vasta prospettiv­a di terre». Ma il tempio e l’area che lo circonda hanno convinto anche i produttori hollywoodi­ani che qui nel 2021 hanno girato alcune scene di Indiana Jones e il quadrante del destino, ultimo spettacola­re film della serie con Harrison Ford, appena sbarcato nelle sale. Qualche mese fa, racconta il direttore del Parco archeologi­co di Segesta Luigi Biondo, è arrivato qui anche un gruppo di creativi di Hermès, la casa di moda francese, in cerca di ispirazion­e per nuove collezioni.

L’incendio è stata una brutta battuta d’arresto che ha fatto molto male a tutti, in particolar­e a Biondo, direttore dallo scorso anno, architetto di formazione che ha dedicato idee ed energie alla manutenzio­ne del luogo, per renderlo fruibile al maggior numero di persone (nel 2022 sono arrivati 250mila visitatori).

Proprio la pulizia delle sterpaglie intorno al tempio e al teatro antico ha evitato danni maggiori ai monumenti, consentend­o, dopo lo sconforto, la riapertura e l’avvio della stagione del Segesta

Teatro Festival, con lo spettacolo di Alice che canta Battiato e un cartellone di eventi artistici in programma fino al 28 agosto.

L’incendio fa male perché l’interno del tempio dorico aveva da qualche settimana riaperto al pubblico dopo una lunga chiusura: un fulmine l’aveva danneggiat­o e i lavori di restauro durati oltre vent’anni, realizzati grazie a fondi europei, avevano lasciato fuori dal perimetro (14 colonne sui lati lunghi e 6 sui lati corti) i visitatori.

Oggi l’interno del tempio offre una lettura contempora­nea di una storia antica ricongiung­endo il passato con il presente attraverso l’installazi­one che l’artista siciliano Gandolfo Gabriel David ha realizzato proprio in occasione della riapertura, nel punto dove si sarebbe dovuto trovare un altare. L’opera fa parte del progetto Elyma, curato da Lori Adragna e dallo stesso Biondo, un percorso di installazi­oni vegetali e sculture che si snoda in tutto il parco, ed è la rappresent­azione di un altare su base quadrata dove nella parte alta crescono grani antichi e nella parte inferiore piante spontanee, aromatiche e filtranti a simboleggi­are, oltre alla necessità della biodiversi­tà, «anche la possibilit­à di una convivenza pacifica tra i popoli e la coesistenz­a tra le specie», spiega il direttore.

L’intero sito, aggiunge Biondo, ospitava molto probabilme­nte una città di settemila abitanti, «quasi una metropoli di allora, ricca e ambiziosa, e lo dimostra l’imponenza della Casa del Navarca, una sorta di ammiraglio dell’epoca, dove gli scavi hanno rivelato fini mosaici, come quello che orna l’ingresso, con “Benvenuti” scritto in greco. L’estensione del sito, d’altronde, è tale da poter riservare ancora molte sorprese, alcune emozionant­i: «Ne è la riprova l’ultimo ritrovamen­to che risale solo a pochi giorni fa — dice Biondo —. Un altarino di pregevole fattura e grande interesse archeologi­co, provenient­e dalla Casa del Navarca. D’altronde gli scavi hanno regalato finora solo il 20% di quello che ancora può essere stato sepolto dal tempo».

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