Corriere della Sera - La Lettura
Di accoglienza Il movimento panafricano riunì il Maghreb al continente
Un saggio uscito negli Usa esplora un ventennio che appare oggi un lontano ricordo
Il Nord Africa è diventato la via d’accesso per gli africani in Europa. La presenza dei flussi migratori ha riacceso il dibattito sul rapporto tra il Maghreb e il resto del continente, portando con sé nuove (e vecchie: la tratta araba degli schiavi subsahariani proseguì per molti secoli) forme di razzismo. Dopo i successi della nazionale di calcio marocchina ai mondiali in Qatar si è discusso sull’identità del Marocco: si è trattato di una vittoria dell’Africa, del mondo arabo o del popolo berbero?
A febbraio il presidente della Tunisia Kaïs Saïed — che nei giorni scorsi ha più volte incontrato la premier Meloni e i rappresentati dell’Europa e ha partecipato da protagonista alla conferenza di Roma sulle migrazioni organizzata domenica 23 luglio — ha lanciato l’allarme di un rischio di sostituzione etnica a seguito delle «orde di migranti» provenienti dai Paesi subsahariani. Il 5 luglio la polizia tunisina ha deportato centinaia di migranti dalla città di Sfax fino al confine con la Libia, lasciandoli nel deserto.
Tuttavia, c’è stato un ventennio in cui Marocco, Algeria e Tunisia hanno attratto artisti e militanti neri, esuli e dissidenti da tutto il mondo, contribuendo a formare la cultura post-coloniale e il Panafricanismo. Dopo l’indipendenza, tra gli anni Sessanta e Settanta, i tre Paesi hanno offerto aiuti militari e finanziari ai pieds-rouges (letteralmente piedi rossi), militanti di sinistra, movimenti rivoluzionari e idealisti di tutto il mondo, e ospitato un fervente panorama culturale. In Marocco il poeta Abdellatif Laâbi ha fondato la rivista letteraria «Souffles», che tra il 1966 e il 1973 ha offerto uno spazio a scrittori di tutto il continente e della diaspora dove sostenere la cultura rivoluzionaria africana. Nel 1969 Algeri, che si era guadagnata l’appellativo di «Mecca dei rivoluzionari», ospitò il Pan-African Festival of Algiers (Panaf), una delle più grandi celebrazioni della cultura rivoluzionaria del continente africano, organizzato dallo stato algerino e dall’Organization of African Unity (Oau). Durante il festival lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun interrogò il regista e scrittore senegalese Ousmane Sembène sul ruolo dell’artista. «È un uomo impegnato nel dissenso perpetuo. Il suo ruolo è di essere un militante, un combattente».
Gli artisti militanti avevano già iniziato a mostrare scetticismo verso le attitudini autoritarie degli Stati post-coloniali e mal tolleravano il loro tentativo di monopolizzare la cultura panafricana. Per questo incominciarono a organizzare la loro militanza in sedi alternative — radio, riviste e spazi privati. Per contendere la leadership del movimento panafricano a Marocco e Algeria, nel 1966 il ministero della Cultura tunisino fondò le Journées Cinématographiques de Carthage. Sotto la direzione dell’intellettuale tunisino Tahar Cheriaa e di Ousmane Sembène, il festival cinematografico trascese le intenzioni del governo e diventò un luogo dove gli artisti magrebini poterono continuare a manifestare il loro dissenso al Panfricanismo governativo.
Queste storie sono contenute in Maghreb Noir: the Militant-Artists of North Africa and the Struggle for a Panafrican, Postcolonial Future (Stanford University Press). Nel libro Paraska Tolan-Szkilnik, Assistant Professor di Storia presso la Cornell University, definisce la «blackness» come un concetto politico invece che razziale, capace di includere popoli colonizzati, ex-colonizzati e altri gruppi marginalizzati in giro per il mondo. Tra gli anni Sessanta e Settanta in Maghreb l’internazionalismo nero non riguardò solo le persone con una pelle molto scura, ma coinvolse tutti i militanti che vivevano in Nord Africa, neri, arabi, bianchi e berberi, nel progetto del Panafricanismo e lo trasformò in un movimento multilinguistico e multirazziale.