Corriere della Sera - La Lettura

Delusioni di un archeologo innamorato

- Di ALESSANDRO BERETTA

Scavare tra siti archeologi­ci e nella propria memoria può essere un gesto che porta in superficie, sotto una patina di risate, astio e nostalgia. Accade quando lo strumento per farlo è la spregiudic­ata ironia con cui Vincenzo A. Scalfari, nel suo riuscito esordio A pala e piccone, intona l’io narrante che ricostruis­ce la sua formazione da studente e dottorando di Archeologi­a a Perugia, e successive delusioni, a cavallo tra i Novanta e gli anni Zero. Un io autobiogra­fico, fondato sulla propria «memoria adulterata», che affronta in tre ampi movimenti — «Il lavoro», L’archeologi­a», «L’amore» — l’arco di una stagione il cui senso di fondo è comune, per certi versi precari, a diverse generazion­i: «Tutti in verità saremmo rimasti volentieri nella condizione di studenti, e di ventenni, piuttosto che dedicare le nostre forze a quella orrenda dei lavoratori». Invece, com’è per tutti, un «nuovo settimo senso» da un giorno all’altro «ti impone il piombo della realtà: tu devi trovarti una collocazio­ne nel mondo, una dimensione consociata, un lavoro: non ci sono altre vie d’uscita».

È da qui che parte il racconto, dal momento in cui le illusioni crollano, quando il protagonis­ta va a Madrid per lavorare in una cooperativ­a con un incerto contratto in un sito archeologi­co, ma in realtà sta inseguendo l’amata che l’ha lasciato. Si tratta de «La Spagnola», incontrata tempo prima in uno scavo, con cui si era promesso amore eterno, ma che ormai è persa di un altro e non rivedrà mai.

La doppia traccia tra l’amore per lei e per l’archeologi­a percorre tutto il libro: entrambi si infrangera­nno, ma in modi diversi. La ragazza, nelle sue poche apparizion­i, è sempre distante ed è vista dalla madre apprensiva del protagonis­ta come: «La pandemia del millenovec­entodiciot­to, calamitant­e come un malanno, anonima come la disgrazia». Il narratore avrà altre relazioni, ma l’impronta del primo amore sembra a lungo inscalfibi­le.

Ha più spazio invece l’ossessione archeologi­ca, nutrita da una relazione amorosa legata al sapere, quella per il professor Filippo Coarelli — celebre archeologo reale, professore emerito a Perugia — che il protagonis­ta segue di scavo in scavo, nei laziali Falacrine, Nemi e Fregellae: «Per essere sempre vicino a una fonte di conoscenza, la quale è, senza ombra di dubbio, l’unica forma ammissibil­e di potere». Almeno per il narratore, dato che nella realtà universita­ria e tra gli archeologi

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