Corriere della Sera - La Lettura
Delusioni di un archeologo innamorato
Scavare tra siti archeologici e nella propria memoria può essere un gesto che porta in superficie, sotto una patina di risate, astio e nostalgia. Accade quando lo strumento per farlo è la spregiudicata ironia con cui Vincenzo A. Scalfari, nel suo riuscito esordio A pala e piccone, intona l’io narrante che ricostruisce la sua formazione da studente e dottorando di Archeologia a Perugia, e successive delusioni, a cavallo tra i Novanta e gli anni Zero. Un io autobiografico, fondato sulla propria «memoria adulterata», che affronta in tre ampi movimenti — «Il lavoro», L’archeologia», «L’amore» — l’arco di una stagione il cui senso di fondo è comune, per certi versi precari, a diverse generazioni: «Tutti in verità saremmo rimasti volentieri nella condizione di studenti, e di ventenni, piuttosto che dedicare le nostre forze a quella orrenda dei lavoratori». Invece, com’è per tutti, un «nuovo settimo senso» da un giorno all’altro «ti impone il piombo della realtà: tu devi trovarti una collocazione nel mondo, una dimensione consociata, un lavoro: non ci sono altre vie d’uscita».
È da qui che parte il racconto, dal momento in cui le illusioni crollano, quando il protagonista va a Madrid per lavorare in una cooperativa con un incerto contratto in un sito archeologico, ma in realtà sta inseguendo l’amata che l’ha lasciato. Si tratta de «La Spagnola», incontrata tempo prima in uno scavo, con cui si era promesso amore eterno, ma che ormai è persa di un altro e non rivedrà mai.
La doppia traccia tra l’amore per lei e per l’archeologia percorre tutto il libro: entrambi si infrangeranno, ma in modi diversi. La ragazza, nelle sue poche apparizioni, è sempre distante ed è vista dalla madre apprensiva del protagonista come: «La pandemia del millenovecentodiciotto, calamitante come un malanno, anonima come la disgrazia». Il narratore avrà altre relazioni, ma l’impronta del primo amore sembra a lungo inscalfibile.
Ha più spazio invece l’ossessione archeologica, nutrita da una relazione amorosa legata al sapere, quella per il professor Filippo Coarelli — celebre archeologo reale, professore emerito a Perugia — che il protagonista segue di scavo in scavo, nei laziali Falacrine, Nemi e Fregellae: «Per essere sempre vicino a una fonte di conoscenza, la quale è, senza ombra di dubbio, l’unica forma ammissibile di potere». Almeno per il narratore, dato che nella realtà universitaria e tra gli archeologi