Corriere della Sera - La Lettura
Due bombe nella vita di Franco
Un ordigno della Seconda guerra mondiale esplode a Milano nel 1952; la malattia della nipotina Amina devasta la famiglia nel 2016. Tra queste date — e tra reale e realismo magico — si sviluppa il romanzo di Sergio Baratto
Va dal 1952 al 2016 l’arco lungo il quale si distende My favorite things di Sergio Baratto. Mercoledì 3 settembre 1952: il giorno in cui, nel corso d’una scorribanda nell’allora periferia milanese tra Porta Romana e Corvetto, accade il fattaccio che condizionerà la vita dell’undicenne Franco. E 27 febbraio-1° marzo 2016: il presente della vita di Franco, segnato dal ricovero in ospedale della nipotina Amina, di cinque anni.
Due date per due immagini di morte, e una di resurrezione. Un filo teso tra due esplosioni: esteriore quella del 1952, quando maneggiando una bomba inesplosa della Seconda guerra mondiale l’amico Enrico ne viene disintegrato mentre Franco, ferito, per lo shock posttraumatico rimuove dalla memoria l’accaduto; interiore quella prodotta dalla malattia senza scampo di Amina, in seguito alla quale «l’argine comincia a cedere. Sgocciolano dalla crepa i primi ricordi a ritroso. L’orrore del giorno presente si mescola all’orrore del passato in riemersione».
È l’accettazione di sé conseguente allo svelamento di quel mistero che per tutta la vita gli si presentava attraverso «strani sogni», incubi, sprazzi di luce ed esplosioni, ma pure la figura d’«un bruco misurino che si scava un cunicolo» e «sempre più vicino, cresce nel buio come uno scotoma scintillante». Un bruco che diventa un bambino «un attimo prima che il nero inghiottisca», chiedendogli aiuto: ossia Enrico, Bruco di soprannome.
E, in mezzo, il riattraversamento per tappe di momenti della sua vita nei quali inciampa in stimoli che avrebbero potuto aprire uno spiraglio sul mistero rimosso della sua esistenza. Come il 2 dicembre 1962, in cui il Franco ventunenne — «tutto casa e scuola. Tutto studio, musica e libri. Sempre triste. Da anni. Da quando era un bambino. Da quella volta nel prato» dalla quale «non si è mai ripreso» — è casualmente coinvolto e imbucato da un vecchio amico al concerto di John Coltrane, la cui musica è «difficile dire se fosse ancora il caso di chiamarlo jazz». O nel 1971 (con estensioni riassuntive 1971-1981 che attraversano con scioltezza momenti tragici del Novecento) della «missione tanto cruciale affidata a un ingegnerino appena trentenne» in Turkmenistan per l’installazione e il collaudo d’un derrick per estrazione petrolifera.
E il ritorno a casa (1981-1986) dove prende corpo anche la sua famiglia: la madre Marisa, la sbandata sorella Teresa che molla a lui e alla madre la piccola Serena da crescere; una Serena a sua volta coprotagonista con scelte di vita di impegno sociale (il G8 di Genova del 2001) e il matrimonio con Nuri, che, medico, non può che vivere come una sconfitta personale la malattia della figlia Amina.
E una Milano personaggio: quella di ieri, nel ricordo; quella densa di solitudini del presente, con le trasformazioni intervenute passando da periferia industriale e operaia a borghese, che Franco attraversa con «l’antica abitudine di camminare da solo».
Anni che Franco vive «sprofondato nell’assenza», in uno stato di vuoto, afflitto da un ipnotico «smottamento della
Sergio Baratto è nato a Milano, dove vive, nel 1973. È stato cofondatore e redattore della rivista «Il primo amore». Ha pubblicato Diario di un’insurrezione (Effigie, 2012) e La Steppa (Mondadori, 2016), vincitore del Premio Giuseppe Berto L’appuntamento L’autore sarà a Chiusi, provincia di Siena, al festival Orizzonti, per presentare il romanzo martedì 1° agosto alle ore 19 memoria», e che cerca nell’alcol «notti senza sogni» e vive «in un eterno presente spogliato di colore»; inabissandosi «sempre di più in una specie di coma etilico vigile», ma senza mai «cedimenti sul lavoro»: in «una vita sdoppiata, presente/assente». Dove spetta agli incontri un primo sciogliersi della memoria, crepe che s’aprono «nel guscio di cemento armato che ha costruito intorno al nucleo infusione della memoria»: con l’invito al coraggio di guardare «nel buco nero che hai dentro» della serata di Coltrane (che si riaffaccerà a fine romanzo in veste di «angelo»); o con i racconti dai tratti picareschi di Gubko e Maksat Kurbonovic in Turkmenistan: ennesimo attraversamento di convivenze di razionalità e irrazionalità, soggette a (forse troppe) «coincidenze curiose».
Del resto il romanzo stesso viene a incrociare nel suo percorso i due momenti di reale e realismo magico, che attraversa l’onirico per infine sciogliersi liberatorio nella non-realtà (stante «la stoltezza» di «credere impossibile l’impossibile»).
Il romanzo ha una costruzione narrativa mobilissima, scompaginata nelle sue dimensioni spazio-temporale e tonale (il trascorrere dal tragico al comico, all’onirico, al razionale-scientifico con domande sul male, toccando lirismo, malinconia e delirio). E dove riveste un ruolo centrale proprio il suo titolo. Perché nel commentare il concerto di Coltrane, Baratto delinea di fatto la propria opzione scrittoria: sul modello di quel sax soprano che «si trasformò in un flauto incantatore. La musica era delicata e violenta, un attimo prima aggrediva l’uditorio come una lama e un attimo dopo diventava una nenia infantile, piena di dolcezze di malinconia»; il «fluire di suoni tintinnanti e sempre più densi, che si incrociavano e si scontravano spargendo tutto intorno frammenti aguzzi»; «una musica così brutale pure così piena di grazia, che fosse nello stesso tempo esplosione, pianto e inno di lode. Era un canto d’amore e una lotta. Erano l’angoscia e la gioia mescolati insieme, la furia e la tenerezza».