Corriere della Sera - La Lettura
Mosca, l’arte che resiste «Ma è tutto grottesco»
Alexandra Sukhareva avrebbe dovuto rappresentare la Russia alla Biennale di Venezia del 2022, ma la partecipazione naufragò con la guerra in Ucraina. Ora le sue opere sono in mostra a Brescia con i lavori del compagno Denis Koshkarev
iIl giorno dopo il 24 febbraio 2022, il mondo culturale condannò l’«operazione militare speciale» espellendo artisti e intellettuali russi da rassegne liriche, teatri, concerti, corsi universitari, eventi... Di colpo — sbrigativamente — Dostoevskij, Cajkovskij, Puškin... divennero divisivi, imbarazzanti, rappresentanti dello Stato aggressore. Gli artisti contemporanei che ancora vivevano in Russia, contrari all’invasione dell’Ucraina, provarono a fuggire. In quei giorni, un segnale forte arrivò dagli artisti Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov, e dal curatore Raimundas Malašauskas, l’agosto precedente invitati ad allestire il Padiglione russo alla 59° Biennale Arte di Venezia. Il 27 febbraio cancellarono la propria presenza: «Non c’è posto per l’arte quando i civili muoiono sotto il fuoco dei missili», dichiarò sui social Sukhareva. Quel post è stato poi rimosso, ma l’artista, senza clamore, è tornata in Italia, dove, fino al 2 settembre, presenta assieme al marito Denis Koshkarev una personale a Brescia. «La Lettura» l’ha incontrata prima del suo rientro a Mosca.
«Take Off the Mask, Take Off the Hat», via la maschera, via il cappello, titolo della mostra, che cosa significa?
«La frase nasce da un gioco, dall’invenzione di frasi in rima. L’intera esposizione è un corpo di opere realizzate nell’ultimo anno, un percorso di analisi fatto per dare un senso a ciò che ancora mi lega alla “madre-patria” dopo il febbraio 2022. Ho lavorato sul fraintendimento, l’errore, l’interpretazione. Ero disorientata perché mi era accaduto qualcosa che non potrò mai dimenticare, anche se nulla di paragonabile alla distruzione dell’Ucraina».
Che cosa voleva presentare alla Biennale nel 2022? «Ho cancellato quel progetto». Ha avuto difficoltà ad allestire questa nuova mostra?
«Tutto è accaduto all’improvviso: abbiamo ricevuto l’invito e abbiamo accettato. Dopo la cancellazione alla Biennale, non ho più pensato di partecipare a rassegne. Per me non è più possibile esporre in Russia».
Perché non ha lasciato il suo Paese?
«Kirill è fuggito subito dopo il proclama di Putin. Denis ed io abbiamo scelto di restare. È importante fare parte di quanto sta succedendo, contemplare, analizzare, riflettere. Viviamo nel qui e ora, senza programmi a lungo termine, tra Mosca e lo studio di Dubna, in campagna. Viviamo nella speranza, non abbiamo paura, sebbene in questo momento ci siano moltissime ragioni per averne».
Qual è stato il lavoro di quest’ultimo anno?
«Le opere sono nate da un lungo dialogo con Denis, il mio compagno. A volte, tutto mi appare grottesco: con la guerra quasi tutti i nostri amici artisti hanno lasciato la Russia, con quelli rimasti i rapporti si sono diradati, ognuno vive nella propria solitudine, alienato. Sono caduta in depressione, ho vissuto una perdita di senso. Così è accaduto a molte altre persone, non è un fatto solo individuale. L’unico dialogo artistico possibile, di fatto, è quello tra noi due».
In che modo è riuscita a creare?
«Volevamo sviluppare il tema della semplicità, in contrasto con la complessità di questo mondo pieno di una tecnologia repressiva. Abbiamo lavorato con mezzi semplici e facili da reperire, come il cloro e il lino utilizzati per le mie tele. Così i disegni a matita di Denis. Dietro a ognuna di queste tele c’è un’emozione, una forte sensazione di luce, un sentimento che ho realizzato distintamente una sera in cui ho acceso la luce in casa mentre stava scendendo la notte. In quel momento ho capito che la luce non poteva più produrre differenze: non poteva più illuminare ma, allo stesso tempo, era onnipresente. Avevo perso il senso della differenza e questo mi ha spaventata. La mia mente è andata subito al Caffè di notte di Van Gogh, alle lampade inquietanti di quel luogo. Anche i disegni di Denis si occupano della stessa onnipresenza, ma nella concezione di René Girard, come desiderio distruttivo. Non si può mai entrare in un dialogo reale, poiché non facciamo altro che mimare il desiderio di chi è davanti a noi».
Questi lavori rappresentano una cancellazione del passato?
«Sì, spesso la luce è un simbolo positivo; non per me. Penso che la sua onnipresenza abbia un potere distruttivo: non concede mai un momento d’ombra, un riparo, una tregua. Il senso della luce nel mio lavoro è creare un riparo, una sorta di maschera».
Non sembra estraneo a quanto accade in Russia e in Ucraina...
«È un report, una testimonianza dei cambiamenti. Sono una persona diversa dopo la guerra, ma non voglio che l’attenzione sia concentrata sul mio cambiamento, ma sulla metafora della luce come onnipresenza, così come l’assurdo è onnipresente. In questo anno, mi ha aiutata leggere Albert Camus: come possiamo affrontare l’assurdo di oggi?».
Alla Biennale voleva affrontare la «premonizione» rileggendo un verso di «Poema senza eroe» di Anna Achmatova. Davvero appartiene tutto al passato?
«Con il curatore Raimundas eravamo convinti che fosse un’idea fondamentale, sebbene avessimo una concezione diversa del tempo, contrastante. Associavamo l’opera della Achmatova all’assedio di Leningrado: sulle sue opere e sulle testimonianze di quel fatto storico mi sono posta molte domande. In passato, dedicai l’opera Pseudomorphosis, 2016 a tutte le persone testimoni dei maggiori cambiamenti storici, il cui passato è stato riscritto, screditato: non sappiamo che cosa ricordare di noi stessi perché stiamo ancora immaginando il presente guardando al passato».
Ci sono riferimenti personali?
«Ai miei due bisnonni paterni: uno era un artigiano, venne arrestato dai bolscevichi; l’altro lavorava per lo Smerš, una divisione speciale dell’Nkvd. Due destini completamente diversi. Eppure, mio padre mi ha sempre mostrato una foto di loro due felici che si abbracciavano. Non solo: una delle più care amiche di mia nonna una sera riconobbe un mio zio come guardia della colonia penale in cui era stato prigioniero il marito. Mia mamma — era solo una bambina quando assistette a questo fatto — mi raccontò che l’ex prigioniero rimase in silenzio tutta la sera fissando la sua ex-guardia. Davanti a questi laceranti contrasti, alla guerra, la produzione di queste tele non è che un modo per non venire dissolta».