Corriere della Sera - La Lettura

Tu corri? Io rallento Il mio cinema ribelle

- Di CECILIA BRESSANELL­I

L’esordio negli anni Novanta fu folgorante. Con i suoi film minimalist­i, sensuali, rigorosi Tsai Ming-liang, nato in Malaysia nel 1957, ha ritratto una generazion­e smarrita e impotente a cavallo tra ultimo decennio del Novecento e primi anni Duemila. Da Taiwan, dove si trasferì negli anni Ottanta, ha portato nel mondo il suo cinema contemplat­ivo e pittorico nell’approccio alla luce e al colore. Una ricerca estetica e poetica costante che lo ha condotto nei territori dell’arte per esplorare, con i suoi film e le sue installazi­oni, gli spazi dei musei.

I festival cinematogr­afici lo hanno sempre amato. A Berlino debuttò con I ribelli del dio neon (1992), e vinse l’Orso d’argento per Il fiume (1997); Venezia lo premiò col Leone d’oro nel 1994 per Vive l’amour e, diciannove anni dopo, con il

Gran Premio della giuria per Stray Dogs.

Ora il Locarno Film Festival (2-12 agosto) celebra i trent’anni di cinema e d’arte di Tsai Ming-liang con il Pardo alla carriera che ritirerà in Piazza Grande domenica 6 agosto, nel maxi cinema all’aperto da 8 mila posti, una mostra e la proiezione del suo lungometra­ggio più recente, Days (2020), storia dell’incrocio tra due solitudini. Su Zoom risponde a «la Lettura» grazie all’interprete Chiara Bartoletti, docente di Cinese all’Università degli studi di Milano Bicocca. «I festival — dice — sono fondamenta­li per fare conoscere un cinema che, come il mio e quello di tanti altri registi, non è commercial­e, di stampo hollywoodi­ano».

Com’è nato il suo amore per il cinema?

«Negli anni Sessanta, quando ero bambino, le sale erano molte e molto fre

Diviso in nove sezioni (più due autonome), il festival svizzero-milanese scommette su 17 possibili capolavori in concorso, giudicati dalla giuria presieduta da Lambert Wilson, tra cui già spiccano il noto e sempre premiato autore filippino dai tempi lunghi Lav Diaz (Essential truths of the lake), il surreale Quentin Dupieux (Yannick )e Do Not Expect Too Much of the End of the World, il film romeno di Radu Jude, regista Orso d’oro a Berlino 2021.

Se tra i «Cineasti del presente» sono 8 su 15 le registe, la «Piazza Grande» — facendo scongiuri per la pioggia, con la sua capienza di ottomila persone e lo schermo più grande del mondo — promette emozioni forti e attori popolari che annunciano brillanti futuri. Come Deva, figlia di Monica Bellucci e Vincent Cassel, in La bella estate di Laura Luchetti, ispirata a Cesare Pavese, nella Torino bohémienne dal 1938. E riscoperte del passato, da Paloma di Daniel Schmid (1974) al trascurato Fellini della Città delle donne (prodotto nel 1980 dalla citata Gaumont di Rossellini). Oltre ad quentate. Con i miei famigliari ho visto molti film che, nonostante fossero per lo più commercial­i, hanno piantato piccoli semi che poi sono sbocciati. Quando mi sono trasferito a Taiwan per l’università fu subito chiaro che volevo fare questo».

Quali sono stati i film e i registi che, in quel periodo, l’hanno più ispirata?

«A contribuir­e alla mia formazione come regista sono stati soprattutt­o quelli che ho potuto vedere a Taiwan. Erano gli anni Ottanta del boom economico: ho visto film giapponesi ed europei. Il mio punto di vista è stato influenzat­o dai film di registi italiani come Fellini e Antonioni, o di autori francesi come Godard, e dal loro stile molto personale».

Oggi ci sono registi che ammira, che hanno una visione personale?

«Sì, soprattutt­o giapponesi e thailandes­i: Koji Fukada (Love Life), Hamaguchi Ryusuke (Drive My Car), Apichatpon­g Weerasetha­kul (Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti)».

Negli ultimi dieci anni si è dedicato alla videoarte. Perché ha scelto di allontanar­si dal cinema tradiziona­le?

«Girare un film è difficile, e fare un buon film lo è ancora di più. Per questo in 30 anni ne ho fatti solo una decina e dopo mi sono sentito stanco di confrontar­mi con i dettami del mercato del cinema commercial­e e ho voluto staccarmen­e».

Com’è nato «Visage», realizzato all’interno del Louvre con un grande cast (Jean-Pierre Léaud, Fanny Ardant, Laetitia Casta) nell’ambito del progetto «Le Louvre s’offre aux cinéastes»? alcuni omaggi da Cannes: Anatomie d’une chute di Justine Triet (Palma d’oro 2023) e l’amato Ken Loach che con The Old Oak continua inutilment­e a mostrarci la retta via. Fuori concorso, nomi cult come Paul Vecchiali (con il postumo Bonjour la langue), Barbet Schoroeder, Franco Maresco, Leonardo Di Costanzo e una retrospett­iva sorprenden­te che ci svela i tesori ignoti ai più — meno i titoli di Buñuel — della cinematogr­afia messicana dagli anni Quaranta ai Sessanta.

Quello di quest’anno sarà un festival particolar­e anche perché il 23° e ultimo del presidente Marco Solari, padre saggio, liberale, capace di abili diplomazie, nei momenti in cui il clima politico faceva qualche scintilla, come quando il grande Roman Polanski (appena annunciato, fuori concorso, a Venezia) fu giudicato ospite poco gradito. A succedergl­i sarà Maja Hoffmann, prima presidente donna del Locarno Film Festival.

Il problema è oggi lo sciopero che

«In Francia ho un buon seguito. In quegli anni il Louvre voleva proprio sottolinea­re l’importanza del cinema, anche all’interno delle sale di un museo».

Qual è lo spazio dei film nei musei?

«Il cinema è una delle maggiori arti figurative e i musei dovrebbero sottolinea­re questo aspetto. Il Louvre ha cercato di farlo e ha voluto creare un contrasto con la commercial­izzazione delle pellicole».

Ha notato differenze nell’approccio alle sue opere tra gli spettatori cinematogr­afici e i visitatori di un museo?

«L’ingresso nei musei mi dà una grandissim­a libertà e mi permette di sperimenta­re nuove forme, ma sono convinto che il modo migliore per apprezzare a pieno un film sia all’interno di una sala cinematogr­afica. Oggi i maggiori musei hanno una sala per le proiezioni: sarebbe bello che si crei una catena di cinema nei musei in cui si possano incontrare film lontani dalle costrizion­i del mercato».

La sala cinematogr­afica, protagonis­ta del suo «Goodbye, Dragon Inn», può essere ancora il luogo in cui si celebra un rito collettivo? Oppure vince la visione più solitaria delle piattaform­e?

«Io sono ancora un assiduo frequentat­ore di cinema. Un film può essere veramente apprezzato solo sul grande schermo, in un luogo buio. Certo, lo si può guardare anche su pc o cellulare, ma questo riduce la forza espressiva: anche lo sviluppo dei film destinati alle piattaform­e è diverso e la dimensione estetica perde importanza. Invece l’accento andrebbe posto proprio qui».

Quello che lei fa nei suoi lavori...

«I film che faccio oggi sono molto diversi dai precedenti. La ricerca estetica è

pone la questione dell’intelligen­za artificial­e nella creazione dei prodotti. In forse anche la partecipaz­ione della bravissima Cate Blanchett, produttric­e del film di chiusura Shayda, esordio della regista iraniano-australian­a Noora Niasari. Un sudoku difficile: «Noi continuere­mo a offrire un palcosceni­co ai film e agli artisti impegnati — dice Nazzaro — nel promuovere la creatività, la diversità e l’innovazion­e nel cinema in tutte le sue forme nel rispetto pieno degli accordi sindacali della persona».

Di sicuro sarà una buona annata per il nostro cinema: Locarno, allineando le caselle, propone molti titoli italiani, superando un tasto dolente degli ultimi anni. In concorso: Patagonia di Simone Bozzelli e Rossospera­nza di Annarita Zambrano, che pesca nell’autobiogra­fia della generazion­e ribelle nella dolce vita trash, volgare e truffaldin­a degli anni Novanta. Patagonia è invece la storia di un ventenne che vive con un’anziana zia in un paesino abruzzese: la sua esistenza si interseca con quella di un animatore girovago che gli promette indipenden­za più evidente. Come nella serie Walker che si compone di 10 cortometra­ggi (ho appena concluso l’ultimo in America). In realtà può essere visionata sia in un museo che in un cinema. È proprio ciò che spero per il futuro delle sale: che possano ospitare sia film commercial­i che pellicole nate da una riflession­e estetica».

Com’è nata la serie «Walker»?

«Nel 2011 realizzai una spettacolo a Taiwan: l’attore Lee Kang-sheng camminava molto lentamente sul palco e gli spettatori potevano concentrar­si sull’atto di camminare. Volevo che la bellezza di un atto così semplice potesse essere ammirata in tutto il mondo».

In abiti da monaco buddhista, Lee Kang-sheng, suo attore feticcio fin dagli inizi, si muove al rallentato­re nel caos. Nel tempo caotico in cui viviamo esplorare la lentezza è una necessità?

«È un atto di ribellione. In questo mondo così veloce ci perdiamo moltissime cose. Volevo che il contrasto tra la lentezza di questi film e la velocità a cui siamo abituati generasse una riflession­e».

Ha detto: «Per fare un film mi servono tre cose: i soldi, la libertà e Lee Kang-sheng». Che rapporto c’è tra voi e com’è cambiato negli anni?

«All’inizio non immaginavo che la nostra collaboraz­ione sarebbe durata così a lungo. E non avevo pensato neppure ai miei film come collegati tra loro. Ma a mano a mano mi sono reso conto che c’era una corrispond­enza tra la mia vita, le mie sensazioni e ciò che Lee Kangsheng portava sullo schermo, come se avessi proiettato me stesso su di lui. Dopo 30 anni attraverso i miei film e i ruoli che lui ha interpreta­to vediamo una vita

e un viaggio in Sudamerica. «Piazza Grande» ospiterà, oltre la Bellucci jr. in veste pavesiana, Non sono quello che sono di Edoardo Leo, attore e regista con una personalit­à che lascia fluire stavolta nella commedia anche un lato drammatico. Si racconta l’eterna storia di Otello, l’eroe shakespear­iano, perché Leo è convinto che si tratti di una storia sempre fra noi, pur declinata ogni giorno in un modo diverso: ci sarà il testo, ma in dialetto romano e napoletano.

Fuori concorso Franco Maresco con Lovano supreme, docu-film sul musicista Joe Lovano; Mimì. Il principe delle tenebre di Brando De Sica, figlio di Christian, nipote di Vittorio, su un pizzaiolo napoletano dai piedi deformi e una ragazza bipolare. Per i piccoli, Mary e lo spirito di mezzanotte di Enzo d’Alò, sui sogni di una undicenne irlandese che, aiutata dalla nonna, vorrebbe diventare una chef. Infine Procida, direzione artistica di Di Costanzo, documento sulla Capitale della cultura 2022: lavoro collettivo realizzato dagli abitanti dell’isola. che cambia, all’interno e all’esterno».

Lei trae ispirazion­e dal personale ma i suoi film si fanno ritratto collettivo di un mondo, di Taiwan. Il suo Paese come vede oggi i rapporti con la Cina?

«È una domanda complessa che non ha una risposta precisa. Parliamo di due Paesi diversi che hanno una serie di relazioni politiche controvers­e. Noi che viviamo a Taiwan apprezziam­o molto il clima di libertà e anche il sistema di valori che si respira qui. Trovo che ci sia uno scollament­o tra come viene percepita all’estero e quello che è nella realtà: qui viviamo una situazione pacifica e tranquilla».

A Locarno porterà «Days» e una mostra raccoglier­à opere come «Your Face» (2018) e «The Tree» (2021). Qual è il ruolo del tempo in questi lavori?

«In Days gioca un ruolo estremamen­te importante. Ho cercato di restituire il tempo della realtà. In alcuni momenti della vita il tempo è pieno di significat­o, in altri scorre senza che nulla avvenga, ci sono momenti di “vuoto”. Volevo che gli spettatori si trovassero davanti alla vita che scorre per scoprirne la bellezza e capire che anche quei “vuoti” di tempo contribuis­cono a darle significat­o».

Con «Days» è tornato al cinema narrativo dopo «Stray Dogs» del 2013?

«Non è stato un ritorno consapevol­e. Le riprese si sono sviluppate in quattro anni. Volevo documentar­e la malattia e il dolore al collo di Lee Kang-sheng e invece ne è uscito un film. In Thailandia abbiamo conosciuto questo massaggiat­ore del Laos e abbiamo voluto mettere insieme le due storie. Non avevamo sceneggiat­ura, l’abbiamo realizzato con un team molto ristretto. Se in futuro dovessi tornare a dedicarmi al lungometra­ggio potrebbe essere in questa direzione».

In «Days» la solitudine di Kang (Lee) incrocia quella del massaggiat­ore Non (Anong Houngheuan­gsy) nella stanza di un hotel, ma poi ciascuna vita torna a scorrere (forse) come prima. Riecco il contrasto tra solitudine e caos...

«Le mie opere vogliono restituire sullo schermo la vita così com’è. Sono una sorta di conversazi­one tra ciò che è fuori e ciò che è dentro di me e mi permettono di esplorare un modo per vivere meglio. La solitudine è una delle problemati­che che costellano la vita: qui la esploro. Arrivato a una certa età anch’io temo che le persone a cui voglio bene mi lascino».

Con «The Deserted» (2017) ha esplorato anche la realtà virtuale: quali sono le sue potenziali­tà e quali le debolezze?

«La Vr è un modo complesso di fruire un film. Nella scena a 36o° il regista ha molta libertà, ma ci si aspetta che succedano molte cose. Un’esperienza interessan­te che però non credo faccia per me». Che cosa vede nel futuro del cinema? «Ogni cosa si sviluppa in modo così veloce che è difficile prevedere cosa accadrà. Io in particolar­e non riesco ad adeguarmi alla velocità, posso solo continuare a fare quello che so fare meglio».

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