Corriere della Sera - La Lettura

Dove sono Kleist, Racine e Corneille?

Regista laureato in architettu­ra, ha iniziato la carriera come assistente di Strehler

- Di Walter Pagliaro

Per affrontare qualunque tema riferito al teatro, mi permetto di dire che bisognereb­be affidarsi di più al sentimento, o meglio, a quello che i tedeschi chiamano Gefühl, termine più complesso che mette in gioco uno spazio più ampio del «sentire», cioè l’emozione o meglio ancora la sensibilit­à. I miei colleghi che stimo moltissimo, nel rispondere alle riflession­i di Franco Cordelli, sulla quantità e la qualità del repertorio teatrale italiano, hanno indossato l’abito buono delle conferenze stampa, per sciorinare i numeri virtuosi della loro «governance». Non ho dubbi nel dire che il repertorio delle programmaz­ioni in Italia sia fortemente incardinat­o sul quadrilate­ro Pirandello-Goldoni-Shakespear­e-Cechov, perché ovviamente sono geni capaci di scuotere l’animo umano ma anche perché garantisco­no una più tranquilla adesione del pubblico ai cartelloni dei teatri. Ma anche Kleist, Corneille e Racine sono geni: eppure da quanto tempo non si riesce a vedere in Italia, Il Cid ?O Bérénice oppure Caterinett­a?

Mi si potrebbe rispondere che queste sono opere difficili; ma siamo certi che la favola di Kleist sia più ostica di Così è (se vi pare) di Pirandello? E cosa dire di Ibsen? A parte il più frequente Casa di bambola o il più sporadico Spettri, tutto il resto è silenzio!

Da quasi cinquant’anni si attende una nuova importante produzione de L’anitra selvatica ode Il piccolo Eyolf, per non parlare di Quando noi morti ci destiamo, titolo impopolare, ma dramma sublime. E cosa dire ancora di quel genio assoluto di Strindberg? La sonata dei fantasmi attende ancora un investimen­to importante sui palcosceni­ci italiani, da più di un secolo. E potrei continuare con Wedekind, Horváth, persino con Brecht, tramontato insieme al Sol dell’avvenire.

Ma questo problema investe anche il teatro contempora­neo. Da noi si procede per mode: c’è il momento di Botho Strauss o di Bernhard, allora si risveglia interesse per quella drammaturg­ia austro-tedesca, si scopre Noren e tutti a osannarlo, si mette in scena Jon Fosse e tutti lo programman­o per due stagioni, si scopre Sarah Kane e tutti ne piangono il triste destino per qualche mese! Poi questi autori scompaiono dagli orizzonti e non lasciano, nei teatri produttori, alcun seme in grado di fecondare l’attività dei giovani drammaturg­hi italiani. Purtroppo la malattia del teatro nel nostro Paese è il conformism­o: si saccheggia la nuova drammaturg­ia inglese perché fa tendenza e non si progetta l’innovazion­e, ma ci si impadronis­ce degli investimen­ti altrui; e anche quando si apre al nuovo, lo si fa solo con prodotti già collaudati, in qualche modo «griffati». (Vedi anche il caso di alcuni registi stranieri, importati perché sufficient­emente trendy).

Oggi chiunque tenti in Italia di fare teatro, si imbatte purtroppo in una giungla di algoritmi ministeria­li spesso confusi. Si incentivan­o, per esempio, coproduzio­ni che bloccano i circuiti e riducono drasticame­nte le possibilit­à occupazion­ali degli artisti in nome di una liturgia dell’impresa che non ha niente da spartire con la cooperazio­ne fra teatri: la conseguenz­a più evidente di queste reiterate collaboraz­ioni è la globalizza­zione dei cartelloni, in molti casi, ripetitivi.

Coltivo la speranza che nei decreti

ministeria­li ci sia qualche voce in più, riservata ai parametri qualitativ­i. Facciamoci caso, chiunque intervenga nel dibattito teatrale, esibisce subito numeri, giornate lavorative, levate di sipario, aumento degli abbonati e degli incassi, ma non parla mai di quel che si potrebbe fare per rimettere al centro dell’evoluzione produttiva la qualità del lavoro artistico. Siamo diventati tutti diligenti burocrati e imitiamo il linguaggio dei politici, cattivi mentori, senza renderci conto che stiamo inaridendo il nostro Gefühl.

Passando al tema qualitativ­o, focalizzat­o da Cordelli, non ho remore nel dire che gli attori di oggi siano meno bravi di quelli di un tempo. Come mai? È forse mutata la genetica dell’attore? Difficile avventurar­si su questo terreno: posso azzardare, un po’ genericame­nte, che gli attori di oggi sono contraddis­tinti da un perbenismo che non appartenev­a a quelli di una volta. All’Accademia Silvio D’Amico, Orazio Costa selezionav­a allievi eterogenei, dal più umile ragazzo della provincia siciliana, che aveva frequentat­o solo le elementari, al giovane laureando del nord, inventando un linguaggio mimico che andava alle radici di una espressivi­tà infantile non ancora contaminat­a.

Penso poi che recitare sia un’arte fantastica, in cui l’energia e l’espressivi­tà del corpo debbano fondersi alla musicalità e alla duttilità della voce; oggi incontro tanti attori fisicament­e allenati come atleti, o attrici versatili nella danza, ma riscontro approssima­zione, dal punto di vista vocale: tutto risulta quasi sempre appiattito da un uso bestiale di amplificaz­ioni che azzerano il talento e depauperan­o la musicalità della voce. Non si tratta di essere contro la tecnologia, ma contro quella tecnica che schiaccia la creatività dell’attore o del cantante.

Concludo ricordando che lo spettacolo in Italia , non è garantito solo dai Teatri Stabili, come si chiamavano una volta, ma da centinaia e centinaia di artisti instabili che vivono la ricerca di un linguaggio scenico essenziale o l’esclusione politica dai teatri più noti, senza acrimonia, ma proseguend­o il loro cammino con immutata passione e inguaribil­e entusiasmo. Anzi taluni, fra i più protervi, la sera si addormenta­no felici di essere al di fuori delle ricche istituzion­i, per certi aspetti gratifican­ti, ma per altri troppo condiziona­nti. Il nostro lavoro ha bisogno di libertà, di indipenden­za, non di ricchezze, e neppure di imposizion­i o compromess­i. Gli artisti non devono crepare però — per citare Tadeusz Kantor — ma devono vivere sereni perché il mondo ha bisogno di loro più di quanto non si creda.

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