Corriere della Sera - La Lettura
Dove sono Kleist, Racine e Corneille?
Regista laureato in architettura, ha iniziato la carriera come assistente di Strehler
Per affrontare qualunque tema riferito al teatro, mi permetto di dire che bisognerebbe affidarsi di più al sentimento, o meglio, a quello che i tedeschi chiamano Gefühl, termine più complesso che mette in gioco uno spazio più ampio del «sentire», cioè l’emozione o meglio ancora la sensibilità. I miei colleghi che stimo moltissimo, nel rispondere alle riflessioni di Franco Cordelli, sulla quantità e la qualità del repertorio teatrale italiano, hanno indossato l’abito buono delle conferenze stampa, per sciorinare i numeri virtuosi della loro «governance». Non ho dubbi nel dire che il repertorio delle programmazioni in Italia sia fortemente incardinato sul quadrilatero Pirandello-Goldoni-Shakespeare-Cechov, perché ovviamente sono geni capaci di scuotere l’animo umano ma anche perché garantiscono una più tranquilla adesione del pubblico ai cartelloni dei teatri. Ma anche Kleist, Corneille e Racine sono geni: eppure da quanto tempo non si riesce a vedere in Italia, Il Cid ?O Bérénice oppure Caterinetta?
Mi si potrebbe rispondere che queste sono opere difficili; ma siamo certi che la favola di Kleist sia più ostica di Così è (se vi pare) di Pirandello? E cosa dire di Ibsen? A parte il più frequente Casa di bambola o il più sporadico Spettri, tutto il resto è silenzio!
Da quasi cinquant’anni si attende una nuova importante produzione de L’anitra selvatica ode Il piccolo Eyolf, per non parlare di Quando noi morti ci destiamo, titolo impopolare, ma dramma sublime. E cosa dire ancora di quel genio assoluto di Strindberg? La sonata dei fantasmi attende ancora un investimento importante sui palcoscenici italiani, da più di un secolo. E potrei continuare con Wedekind, Horváth, persino con Brecht, tramontato insieme al Sol dell’avvenire.
Ma questo problema investe anche il teatro contemporaneo. Da noi si procede per mode: c’è il momento di Botho Strauss o di Bernhard, allora si risveglia interesse per quella drammaturgia austro-tedesca, si scopre Noren e tutti a osannarlo, si mette in scena Jon Fosse e tutti lo programmano per due stagioni, si scopre Sarah Kane e tutti ne piangono il triste destino per qualche mese! Poi questi autori scompaiono dagli orizzonti e non lasciano, nei teatri produttori, alcun seme in grado di fecondare l’attività dei giovani drammaturghi italiani. Purtroppo la malattia del teatro nel nostro Paese è il conformismo: si saccheggia la nuova drammaturgia inglese perché fa tendenza e non si progetta l’innovazione, ma ci si impadronisce degli investimenti altrui; e anche quando si apre al nuovo, lo si fa solo con prodotti già collaudati, in qualche modo «griffati». (Vedi anche il caso di alcuni registi stranieri, importati perché sufficientemente trendy).
Oggi chiunque tenti in Italia di fare teatro, si imbatte purtroppo in una giungla di algoritmi ministeriali spesso confusi. Si incentivano, per esempio, coproduzioni che bloccano i circuiti e riducono drasticamente le possibilità occupazionali degli artisti in nome di una liturgia dell’impresa che non ha niente da spartire con la cooperazione fra teatri: la conseguenza più evidente di queste reiterate collaborazioni è la globalizzazione dei cartelloni, in molti casi, ripetitivi.
Coltivo la speranza che nei decreti
ministeriali ci sia qualche voce in più, riservata ai parametri qualitativi. Facciamoci caso, chiunque intervenga nel dibattito teatrale, esibisce subito numeri, giornate lavorative, levate di sipario, aumento degli abbonati e degli incassi, ma non parla mai di quel che si potrebbe fare per rimettere al centro dell’evoluzione produttiva la qualità del lavoro artistico. Siamo diventati tutti diligenti burocrati e imitiamo il linguaggio dei politici, cattivi mentori, senza renderci conto che stiamo inaridendo il nostro Gefühl.
Passando al tema qualitativo, focalizzato da Cordelli, non ho remore nel dire che gli attori di oggi siano meno bravi di quelli di un tempo. Come mai? È forse mutata la genetica dell’attore? Difficile avventurarsi su questo terreno: posso azzardare, un po’ genericamente, che gli attori di oggi sono contraddistinti da un perbenismo che non apparteneva a quelli di una volta. All’Accademia Silvio D’Amico, Orazio Costa selezionava allievi eterogenei, dal più umile ragazzo della provincia siciliana, che aveva frequentato solo le elementari, al giovane laureando del nord, inventando un linguaggio mimico che andava alle radici di una espressività infantile non ancora contaminata.
Penso poi che recitare sia un’arte fantastica, in cui l’energia e l’espressività del corpo debbano fondersi alla musicalità e alla duttilità della voce; oggi incontro tanti attori fisicamente allenati come atleti, o attrici versatili nella danza, ma riscontro approssimazione, dal punto di vista vocale: tutto risulta quasi sempre appiattito da un uso bestiale di amplificazioni che azzerano il talento e depauperano la musicalità della voce. Non si tratta di essere contro la tecnologia, ma contro quella tecnica che schiaccia la creatività dell’attore o del cantante.
Concludo ricordando che lo spettacolo in Italia , non è garantito solo dai Teatri Stabili, come si chiamavano una volta, ma da centinaia e centinaia di artisti instabili che vivono la ricerca di un linguaggio scenico essenziale o l’esclusione politica dai teatri più noti, senza acrimonia, ma proseguendo il loro cammino con immutata passione e inguaribile entusiasmo. Anzi taluni, fra i più protervi, la sera si addormentano felici di essere al di fuori delle ricche istituzioni, per certi aspetti gratificanti, ma per altri troppo condizionanti. Il nostro lavoro ha bisogno di libertà, di indipendenza, non di ricchezze, e neppure di imposizioni o compromessi. Gli artisti non devono crepare però — per citare Tadeusz Kantor — ma devono vivere sereni perché il mondo ha bisogno di loro più di quanto non si creda.